Una delle espressioni più ricorrenti nel testo del disegno di legge di riforma universitaria è “senza oneri aggiuntivi”. In concreto, infatti, l’unico criterio ispiratore del ddl è quello stabilito un anno fa dal vero ministro dell’Università, Giulio Tremonti: riduzione della spesa. Ciò dimenticando che l’Italia si colloca agli ultimi posti tra i Paesi avanzati per investimento in università e ricerca. Il tutto, poi, in evidente controtendenza con ciò che stanno facendo gli altri grandi Paesi industrializzati in questo periodo di crisi economica. Solo a titolo di esempio, Obama ha deciso, assieme al suo governo ed al parlamento americano, che nei prossimi cinque anni la spesa per ricerca ed innovazione deve costantemente incrementarsi. Questo perchè si è capito che tale investimento è vitale per un Paese, non per l’Università in sé, e deve essere decisamente accresciuto. Ed il nostro Governo, invece, decide di ridurre ulteriormente tale investimeto direttamente (meno fondi) e indirettamente con un turn-over per cui ogni due professori che vanno in pensione solo uno ne viene assunto. Tremonti ne aveva addirittura previsto uno solo ogni cinque.
La riforma "Tremonti-Gelmini" viene giustificata con alcuni assunti teorici, molti dei quali possono essere facilmente smentiti. Con ciò non voglio assolutamente affermare che il nostro sistema universitario non sia afflitto da una serie di mali cronici che vanno sicuramente affrontati e sradicati al più presto per ridare slancio alle attività di ricerca, di formazione e di trasferimento tecnologico che competono ad una Università che si rispetti. Addirittura si può dimostrare che spesso questi mali sono legati a scelte del ceto politico, più che di quello universitario che dovrebbe rispondere, semmai, per non averli evidenziati in tempo e contrastati adeguatamente.
Cominciamo dalla «scandalosa» proliferazione dei corsi di laurea. Molti sono effettivamente superflui, ma la maggior parte di tale proliferazione e’ dovuta principalmente alla famigerata riforma del 3+2. Prima c’era un unico corso di 4-5 anni, ora lo stesso corso compare nella laurea triennale e viene ripreso e concluso nella successiva biennale, per cui il raddoppio e’ determinato dalla Legge, non dalle universita’.Non mi soffermo sugli esiti negativi che in taluni casi questa riorganizzazione didattica ha prodotto.
E che dire della proliferazione degli Atenei? Gli universitari ne avranno tratto vantaggi in termini di nuovi posti generati, ma non si può dimenticare che ministri e politici locali dal 2000 al 2005 hanno contribuito significativamente all'incremento del loro numero da 70 a 95. E' facile ricordare qualche nostro politico locale che chiede una nuova università nel suo territorio "elettorale". Se non si riesce a far nascere un Ateneo in piena regola si chiedono corsi di laurea decentrati, centri di ricerca delocalizzati, nuove facoltà. A Cosenza è recente il dibattito sulla facoltà di medicina. E quante volte, se fossero state ascoltate le richieste di alcuni esponenti del ceto politico calabrese, la sostanziale concentrazione nel campus di Arcavacata di tutte le attività didattiche e di ricerca sarebbe stata sacrificata a vantaggio di altre logiche che avrebbero snaturato il progetto iniziale dei padri fondatori, primo fra tutti il rettore Andreatta. Eppure a questa strutturazione è legata buona parte del successo del nostro Ateneo che in alcuni campi di ricerca ha raggiunto l'eccellenza internazionale e primeggia nelle classifiche nazionali (Censis - Repubblica - MIUR - etc.).
Altro argomento supergettonato è la fuga dei cervelli. Si dimentica però di evidenziare che se parecchi nostri giovani sono stati assunti all’estero è perchè la bistrattata universita’ italiana ha fornito loro una preparazione di eccellenza. Parte della colpa nell'averli lasciati scappare è sicuramente dell''università. Ma se il Governo avesse meglio finanziato il sistema università-ricerca forse se ne poteva recuperare una quota significativa. E che dire del mondo imprenditoriale che avrebbe potuto assorbirli e valorizzarli, come avviene in tante altre parti del mondo industrializzato.
Ritorniamo però alle motivazioni "economiche" del disegno di legge di riforma universitaria, ricordando che una parte consistente del disegno di legge riguarda gli organi di governo dell’Università. Nella mia nota della settimana scorsa ho evidenziato che vengono previste meno cariche elettive, più nomine dall’alto, più esterni a valutare e ad amministrare. In sostanza meno “università pubblica” e più intervento privato. Non si può notare, inoltre, che curiosamente, con poche battute nei punti cruciali del ddl, le università private (che in realtà spesso godono di sovvenzioni statali) sono escluse dalla nuova normativa: potranno cioè continuare a fare quel che gli pare.
Dai dibattiti degli ultimi tempi pareva evidente che concorso nazionale con l’estrazione a sorte integrale andava bene a molti nel mondo universitario. Ma tale sistema ha un difetto: consentirebbe di fare subiti i concorsi. Questo è ciò che il Ministero non vuole: nessun concorso significa nessuna “spesa aggiuntiva”. Cosa fa perciò il ddl? Propone una abilitazione nazionale affidando la formazione delle commissioni (ad associato e ordinario) ad un sorteggio di cinque componenti che abbiano superato lo standard scientifico minimo previsto dalla legge (in sostanza avere esercitato attività di ricerca nel triennio precedente). I valori medi nazionali difficilmente saranno particolarmente elevati, per cui la valutazione sarà lasciata ad una commissione con competenze molto variabili e raramente prevedibili in anticipo. Non è automatico, poi, che la selezione nazionale sia migliore rispetto a quella locale. Basta osservare, per esempio, che già da molti anni ricercatori, associati e ordinari sono valutati, al termine del primo triennio, da una commissione nazionale e i candidati ricevono al 99% un giudizio positivo e sono immessi nei ruoli (a vita). Basta chiedere a qualsiasi universitario se. a sua memoria, ricordi casi di ricercatore, associato o ordinario che non siano stati confermati dalle commissioni nazionali, e verificherete facilmente che tali casi si contano sulle dita di una mano. Se ne conclude che le esperienze del passato ed i mille trucchi noti ai professori universitari per aggirare vecchie e nuove norme, garantiscono che la probabilità di ottenere l’abilitazione nazionale sarà particolarmente alta. Ed anche se funzionasse il filtro nazionale poi, localmente, ci sarà “una commissione di almeno cinque membri", con il compito di procedere alla selezione, composta da tutti i professori ordinari della struttura dipartimentale e del settore scientifico didattico che ha richiesto il bando di concorso. La gestione del processo di selezione sarà quindi assolta esclusivamente dagli ordinari del settore, rispettando prevedibilmente equlibri locali ben consolidati.
Qualcuno farà notare che in queste commissioni è obbligatoria la partecipazione di commissari stranieri (nell'ambito dei paesi OCSE in particolare). Rimarrà probabilmente il problema di convincere uno studioso straniero di primo piano a partecipare stabilmente ad una commissione nazionale che prevede l’esame, ogni anno, di decine di domande e, quindi, di distogliere la sua attenzione dalle ricerche svolte nell'Università di appartenenza. Sarebbe stato più semplice prevedere l’obbligo per i candidati di presentare lettere di valutazione da parte di professori e ricercatori stranieri esperti nel campo, così come avviene spesso nelle Università che si intende emulare. Il problema dei concorsi truccati è certamente annoso. In Italia si sono sperimentati quasi tutti i metodi, ma chi voleva barare c’è sempre riuscito, a dispetto, oppure grazie, agli effetti di quella che alcuni chiamano “ingegneria concorsuale“. Insomma: chi crede in un miracoloso rimedio burocratico è destinato nuovamente a rimanere deluso. E ce lo insegna sempre il grande Orazio con il suo "quid leges sine moribus vanae proficiunt?" (a che servono delle vuote leggi se non c'è morale?).
Forse, però, è meglio un concorso lungo, farraginoso, bizantino e bizzarro (per citare alcuni degli aggettivi che circolano in questi giorni) così si evitano per lungo tempo "oneri aggiuntivi". Il tempo, infatti, è un'altra variabile studiata forse a tavolino da Tremonti. La Gelmini si affanna a dichiarare che entro Marzo 2010 il ddl diventerà legge.
Una previsione realistica, invece, è che la parte della legge relativa alle carriere dei docenti universitari sarà applicata non prima del 2012. Precisamente dovrebbe essere necessario un anno per il percorso parlamentare di approvazione della legge ed un altro anno per emanare statuti e regolamenti, per disegnare i nuovi dipartimenti e avviare le procedure concorsuali. Ed intanto niente "oneri aggiuntivi" per il bilancio dello Stato quasi fino alla scadenza del mandato parlamentare della maggioranza che sostiene il Governo.
Senza fondi adeguati gli Atenei stanno cominciando a sopportare sulla pelle dei propri dipendenti (professori, ricercatori, personale tecnico-amministrativo) le conseguenze negative dei tagli decisi dal ministro Tremonti. A Siena si è recentemente evitato per un pelo il non pagamento degli stipendi, ma continuando così sarà solo questione di mesi, atteso il peso che in questo Ateneo rappresenta tale voce sul proprio fondo di finanziamento ordinario (praticamente il 100%). Per l'UniCal questo pericolo potrà verificarsi fra qualche anno, confermando la nostra virtuosità, anche economica. Cosa pensano allora di fare molti Atenei per far cassa senza "oneri aggiuntivi"? Attivano la "rottamazione dei ricercatori e dei dipendenti". Applicando, infatti, una recente Legge sui pre-pensionamenti che dà la possibilita’ di ‘licenziare’ i pubblici dipendenti con piu’ di 40 anni di contributi, vi fanno ricorso non per “ristrutturare” l’Ateneo, ma solo per “fare cassa”, cioe’ per racimolare fondi e portare all’interno dei parametri previsti il bilancio, rendendo così ‘ragioneristicamente’ virtuoso l’Ateneo. Ciò si è tradotto in un pre-pensionamento’ dei dipendenti universitari (ricercatori e personale tecnico-amministrativo) di tipo ‘orizzontale’, cioe’ solo in base agli anni di contributi e non sulla base dell’effettivo apporto dato all’Ateneo dal singolo dipendente. Il Governo ha, quindi, attivato negli Atenei una logica "cannibalesca" oppure, più elegantemente, una ’ ‘via breve’ per ’sanare’ i bilanci. Purtroppo, invece le difficoltà finanziarie nascono soprattutto da una deliberata politica di smantellamento dell’Università statale, condotta da decenni da tutti i Governi e che l’attuale Governo pare abbia la volontà e la possibilità di 'perfezionare’. Molti nel passato, quando soprattutto la categoria dei ricercatori invitava a meditare sulle scelte della Moratti, pensavano a situazioni irrealistiche. Purtroppo oggi bisogna dar ragione a quei ricercatori che organizzavano riunioni spesso disertate dalle altre categorie universitarie e sperare che adesso gli steccati cadano e prevalga il buon senso comune che chiede, non di operare senza "oneri aggiuntivi" di tipo economico per lo Stato, ma senza "oneri aggiuntivi negativi" per la capacità di alta formazione, di ricerca e di innovazione dell'Italia! Meno male, però, che c'è lo scudo fiscale a proteggerci da tutto.
La riforma "Tremonti-Gelmini" viene giustificata con alcuni assunti teorici, molti dei quali possono essere facilmente smentiti. Con ciò non voglio assolutamente affermare che il nostro sistema universitario non sia afflitto da una serie di mali cronici che vanno sicuramente affrontati e sradicati al più presto per ridare slancio alle attività di ricerca, di formazione e di trasferimento tecnologico che competono ad una Università che si rispetti. Addirittura si può dimostrare che spesso questi mali sono legati a scelte del ceto politico, più che di quello universitario che dovrebbe rispondere, semmai, per non averli evidenziati in tempo e contrastati adeguatamente.
Cominciamo dalla «scandalosa» proliferazione dei corsi di laurea. Molti sono effettivamente superflui, ma la maggior parte di tale proliferazione e’ dovuta principalmente alla famigerata riforma del 3+2. Prima c’era un unico corso di 4-5 anni, ora lo stesso corso compare nella laurea triennale e viene ripreso e concluso nella successiva biennale, per cui il raddoppio e’ determinato dalla Legge, non dalle universita’.Non mi soffermo sugli esiti negativi che in taluni casi questa riorganizzazione didattica ha prodotto.
E che dire della proliferazione degli Atenei? Gli universitari ne avranno tratto vantaggi in termini di nuovi posti generati, ma non si può dimenticare che ministri e politici locali dal 2000 al 2005 hanno contribuito significativamente all'incremento del loro numero da 70 a 95. E' facile ricordare qualche nostro politico locale che chiede una nuova università nel suo territorio "elettorale". Se non si riesce a far nascere un Ateneo in piena regola si chiedono corsi di laurea decentrati, centri di ricerca delocalizzati, nuove facoltà. A Cosenza è recente il dibattito sulla facoltà di medicina. E quante volte, se fossero state ascoltate le richieste di alcuni esponenti del ceto politico calabrese, la sostanziale concentrazione nel campus di Arcavacata di tutte le attività didattiche e di ricerca sarebbe stata sacrificata a vantaggio di altre logiche che avrebbero snaturato il progetto iniziale dei padri fondatori, primo fra tutti il rettore Andreatta. Eppure a questa strutturazione è legata buona parte del successo del nostro Ateneo che in alcuni campi di ricerca ha raggiunto l'eccellenza internazionale e primeggia nelle classifiche nazionali (Censis - Repubblica - MIUR - etc.).
Altro argomento supergettonato è la fuga dei cervelli. Si dimentica però di evidenziare che se parecchi nostri giovani sono stati assunti all’estero è perchè la bistrattata universita’ italiana ha fornito loro una preparazione di eccellenza. Parte della colpa nell'averli lasciati scappare è sicuramente dell''università. Ma se il Governo avesse meglio finanziato il sistema università-ricerca forse se ne poteva recuperare una quota significativa. E che dire del mondo imprenditoriale che avrebbe potuto assorbirli e valorizzarli, come avviene in tante altre parti del mondo industrializzato.
Ritorniamo però alle motivazioni "economiche" del disegno di legge di riforma universitaria, ricordando che una parte consistente del disegno di legge riguarda gli organi di governo dell’Università. Nella mia nota della settimana scorsa ho evidenziato che vengono previste meno cariche elettive, più nomine dall’alto, più esterni a valutare e ad amministrare. In sostanza meno “università pubblica” e più intervento privato. Non si può notare, inoltre, che curiosamente, con poche battute nei punti cruciali del ddl, le università private (che in realtà spesso godono di sovvenzioni statali) sono escluse dalla nuova normativa: potranno cioè continuare a fare quel che gli pare.
Dai dibattiti degli ultimi tempi pareva evidente che concorso nazionale con l’estrazione a sorte integrale andava bene a molti nel mondo universitario. Ma tale sistema ha un difetto: consentirebbe di fare subiti i concorsi. Questo è ciò che il Ministero non vuole: nessun concorso significa nessuna “spesa aggiuntiva”. Cosa fa perciò il ddl? Propone una abilitazione nazionale affidando la formazione delle commissioni (ad associato e ordinario) ad un sorteggio di cinque componenti che abbiano superato lo standard scientifico minimo previsto dalla legge (in sostanza avere esercitato attività di ricerca nel triennio precedente). I valori medi nazionali difficilmente saranno particolarmente elevati, per cui la valutazione sarà lasciata ad una commissione con competenze molto variabili e raramente prevedibili in anticipo. Non è automatico, poi, che la selezione nazionale sia migliore rispetto a quella locale. Basta osservare, per esempio, che già da molti anni ricercatori, associati e ordinari sono valutati, al termine del primo triennio, da una commissione nazionale e i candidati ricevono al 99% un giudizio positivo e sono immessi nei ruoli (a vita). Basta chiedere a qualsiasi universitario se. a sua memoria, ricordi casi di ricercatore, associato o ordinario che non siano stati confermati dalle commissioni nazionali, e verificherete facilmente che tali casi si contano sulle dita di una mano. Se ne conclude che le esperienze del passato ed i mille trucchi noti ai professori universitari per aggirare vecchie e nuove norme, garantiscono che la probabilità di ottenere l’abilitazione nazionale sarà particolarmente alta. Ed anche se funzionasse il filtro nazionale poi, localmente, ci sarà “una commissione di almeno cinque membri", con il compito di procedere alla selezione, composta da tutti i professori ordinari della struttura dipartimentale e del settore scientifico didattico che ha richiesto il bando di concorso. La gestione del processo di selezione sarà quindi assolta esclusivamente dagli ordinari del settore, rispettando prevedibilmente equlibri locali ben consolidati.
Qualcuno farà notare che in queste commissioni è obbligatoria la partecipazione di commissari stranieri (nell'ambito dei paesi OCSE in particolare). Rimarrà probabilmente il problema di convincere uno studioso straniero di primo piano a partecipare stabilmente ad una commissione nazionale che prevede l’esame, ogni anno, di decine di domande e, quindi, di distogliere la sua attenzione dalle ricerche svolte nell'Università di appartenenza. Sarebbe stato più semplice prevedere l’obbligo per i candidati di presentare lettere di valutazione da parte di professori e ricercatori stranieri esperti nel campo, così come avviene spesso nelle Università che si intende emulare. Il problema dei concorsi truccati è certamente annoso. In Italia si sono sperimentati quasi tutti i metodi, ma chi voleva barare c’è sempre riuscito, a dispetto, oppure grazie, agli effetti di quella che alcuni chiamano “ingegneria concorsuale“. Insomma: chi crede in un miracoloso rimedio burocratico è destinato nuovamente a rimanere deluso. E ce lo insegna sempre il grande Orazio con il suo "quid leges sine moribus vanae proficiunt?" (a che servono delle vuote leggi se non c'è morale?).
Forse, però, è meglio un concorso lungo, farraginoso, bizantino e bizzarro (per citare alcuni degli aggettivi che circolano in questi giorni) così si evitano per lungo tempo "oneri aggiuntivi". Il tempo, infatti, è un'altra variabile studiata forse a tavolino da Tremonti. La Gelmini si affanna a dichiarare che entro Marzo 2010 il ddl diventerà legge.
Una previsione realistica, invece, è che la parte della legge relativa alle carriere dei docenti universitari sarà applicata non prima del 2012. Precisamente dovrebbe essere necessario un anno per il percorso parlamentare di approvazione della legge ed un altro anno per emanare statuti e regolamenti, per disegnare i nuovi dipartimenti e avviare le procedure concorsuali. Ed intanto niente "oneri aggiuntivi" per il bilancio dello Stato quasi fino alla scadenza del mandato parlamentare della maggioranza che sostiene il Governo.
Senza fondi adeguati gli Atenei stanno cominciando a sopportare sulla pelle dei propri dipendenti (professori, ricercatori, personale tecnico-amministrativo) le conseguenze negative dei tagli decisi dal ministro Tremonti. A Siena si è recentemente evitato per un pelo il non pagamento degli stipendi, ma continuando così sarà solo questione di mesi, atteso il peso che in questo Ateneo rappresenta tale voce sul proprio fondo di finanziamento ordinario (praticamente il 100%). Per l'UniCal questo pericolo potrà verificarsi fra qualche anno, confermando la nostra virtuosità, anche economica. Cosa pensano allora di fare molti Atenei per far cassa senza "oneri aggiuntivi"? Attivano la "rottamazione dei ricercatori e dei dipendenti". Applicando, infatti, una recente Legge sui pre-pensionamenti che dà la possibilita’ di ‘licenziare’ i pubblici dipendenti con piu’ di 40 anni di contributi, vi fanno ricorso non per “ristrutturare” l’Ateneo, ma solo per “fare cassa”, cioe’ per racimolare fondi e portare all’interno dei parametri previsti il bilancio, rendendo così ‘ragioneristicamente’ virtuoso l’Ateneo. Ciò si è tradotto in un pre-pensionamento’ dei dipendenti universitari (ricercatori e personale tecnico-amministrativo) di tipo ‘orizzontale’, cioe’ solo in base agli anni di contributi e non sulla base dell’effettivo apporto dato all’Ateneo dal singolo dipendente. Il Governo ha, quindi, attivato negli Atenei una logica "cannibalesca" oppure, più elegantemente, una ’ ‘via breve’ per ’sanare’ i bilanci. Purtroppo, invece le difficoltà finanziarie nascono soprattutto da una deliberata politica di smantellamento dell’Università statale, condotta da decenni da tutti i Governi e che l’attuale Governo pare abbia la volontà e la possibilità di 'perfezionare’. Molti nel passato, quando soprattutto la categoria dei ricercatori invitava a meditare sulle scelte della Moratti, pensavano a situazioni irrealistiche. Purtroppo oggi bisogna dar ragione a quei ricercatori che organizzavano riunioni spesso disertate dalle altre categorie universitarie e sperare che adesso gli steccati cadano e prevalga il buon senso comune che chiede, non di operare senza "oneri aggiuntivi" di tipo economico per lo Stato, ma senza "oneri aggiuntivi negativi" per la capacità di alta formazione, di ricerca e di innovazione dell'Italia! Meno male, però, che c'è lo scudo fiscale a proteggerci da tutto.
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