domenica 27 marzo 2011

Università Cà Foscari : approvato il nuovo statuto

da www.controcampus.it del 27.3.2011

Ca’ Foscari ha approvato il suo nuovo Statuto, ed è così il primo degli atenei italiani a disporre di una normativa interna in linea con la riforma del sistema universitario recentemente varata dal Parlamento.
A conclusione di un iter iniziato già lo scorso anno (l’ultima fase ha riguardato l’adeguamento di alcune norme al dettato della nuova legge nazionale), il testo predisposto da un’apposita commissione, discusso dal Senato accademico e oggetto di un dibattito che ha coinvolto tutte le anime dell’ateneo veneziano, è stato definitivamente approvato e verrà ora inviato al Ministero.
Il nuovo Statuto contiene elementi di significativa novità sia nei principi ispiratori, sia nella concreta organizzazione delle strutture e degli organi dell’Ateneo, e introduce innovazioni sostanziali anche al di là di quelle legate all’attuazione della riforma.
Equo, sostenibile, meritocratico: è l’ateneo descritto dal nuovo testo fondativo di Ca’ Foscari. Aperto da un richiamo alla “libera ricerca scientifica”, di cui l’Università è sede primaria, e dall’affermazione del suo “carattere laico, pluralista e libero da ogni condizionamento ideologico, confessionale, politico o economico”, il nuovo Statuto è attento a temi come le pari opportunità, il codice etico, la sostenibilità e l’internazionalizzazione, oltre che al principio della valutazione e del riconoscimento del merito.
Tra le novità più rilevanti vi è il maggiore ruolo riconosciuto agli studenti, che avranno più spazio nei vari organi e daranno vita a una consulta dei dottorandi, prima non rappresentati; e la valorizzazione del personale tecnico e amministrativo, che sarà rappresentato in tutti gli organi di governo, compreso il Consiglio d’Amministrazione e i Consigli dei nuovi dipartimenti, e avrà più peso nell’elezione del Rettore.
Ottenuto il via libera definitivo da Roma, la prossima fase prevederà a Ca’ Foscari, dopo una capillare diffusione e condivisione del testo presso tutte le strutture, la concreta attuazione delle norme attraverso il rinnovo, l’istituzione o la modifica degli organi interessati dalle modifiche statutarie. Un passaggio importante riguarderà l’elaborazione dei singoli regolamenti attuativi.
Il Rettore Carlo Carraro esprime notevole soddisfazione per la conclusione dell’iter legislativo interno: “Il nuovo Statuto, che è stato approvato oggiAggiungi un appuntamento per oggi dopo una discussione molto approfondita, definisce nel modo migliore possibile le regole affinché tutti i colleghi docenti e ricercatori possano realizzare al meglio la loro attività di didattica e di ricerca. Ringrazio sentitamente tutti i membri della commissione che ha elaborato il testo e tutti coloro che hanno inviato preziosi suggerimenti ed osservazioni migliorative. Si tratta del frutto di un lavoro meticoloso e condiviso, che darà un nuovo e decisivo impulso al processo di rinnovamento in cui Ca’ Foscari s’impegna ormai da un anno e mezzo”.
Lunedì 28 marzo alle ore 11.30 verrà presentato alla stampa il nuovo Statuto di Ateneo, alla presenza del Rettore, Carlo Carraro, e della Commissione che ha elaborato il testo.

sabato 26 marzo 2011

Giappone: sei giorni dopo la scossa ricostruita autostrada (come la SA-RC !)

 da www.corriere.it


OSAKA - Sei giorni soltanto. E poi si sono riposati. Tanto ci hanno messo gli ingegneri della società di gestione Nexco per ripristinare un tratto dell'autostrada a nord di Tokyo devastata dal terremoto dell'11 marzo.
Più che devastata: una foto scattata da una squadra di pronto intervento, a poche ore dal sisma di 9 gradi Richter, mostra l'asfalto disarticolato e sconnesso, con voragini di alcuni metri: uno scenario adatto a un film del genere catastrofico, tipo Godzilla. In altri Paesi, forse, si sarebbe immaginata una deviazione o comunque un lungo periodo di sbancamento e ripristino prima di rivedere le auto sfrecciare a 120 chilometri l'ora. Non in Giappone. Non in un Paese il cui premier, dopo la doppia catastrofe terremoto-tsunami, ha subito dichiarato: «Ricostruiremo il nostro Paese dalle fondamenta».
L'autostrada record
A giudicare da quanto fatto nella regione del Kanto, vicino a Naka, l'opera è già iniziata. Basta guardare la foto scattata il 17 marzo alle ore 17, esattamente sei giorni più tardi rispetto alla prima immagine: l'asfalto appare perfetto, come se non fosse successo nulla. Merito dell'ingegner Makoto Ishikawa, capace di reagire al disastro senza esitazioni e di risolvere in un tempo davvero breve un guaio che avrebbe provocato seri intoppi alla circolazione nell'area più popolosa del Giappone (42 milioni di abitanti). Questo di Naka, comunque, non è l'unico tratto (150 metri) riaperto al traffico in pochissimo. La Nexco, sul suo sito, spiega che su 20 differenti strade e autostrade, circa 813 chilometri su 870 danneggiati dal terremoto sono già stati riaperti al pubblico, per quanto con interventi d'emergenza e «salti» di corsia. La Nexco ha dovuto ripetere le riparazioni anche più volte, perché le scosse di assestamento hanno danneggiato l'asfalto nuovamente in molti punti, anche se certo non con gli stessi effetti del grande terremoto di due settimane fa. «Chiediamo scusa - avvisa la Nexco - se non tutte le aree di servizio sono state riaperte».
Per quanto immenso può apparire oggi il compito, rimettere in moto il Paese è un imperativo sociale. Qualche dato, tanto per comprendere quanto sarà comunque lunga e onerosa la ricostruzione. La stima del governo, fa sapere il segretario di gabinetto Yukio Edano, parla di 25 mila miliardi di yen - circa 220 miliardi di euro - in danni alle infrastrutture, agli impianti industriali, agli edifici pubblici e privati. Come organizzare i lavori, le priorità? Edano ha detto che l'esecutivo sta valutando la possibilità di costituire un'«agenzia per la ricostruzione» simile a quella che dopo la Seconda guerra mondiale si era presa la briga di far ripartire un Paese raso al suolo, con due città, Hiroshima e Nagasaki, annichilite dalle bombe atomiche e molte altre, Tokyo compresa, semi distrutte dai bombardamenti americani. Stiamo pensando a una «sorta di sistema o organizzazione» che possa gestire gli stanziamenti per il dopo terremoto, ha spiegato Edano. Questo comunque vale per il futuro, un futuro che potrà durare anche cinque anni: tanto ci vorrà, secondo le stime della Banca mondiale, per rimettere in piedi tutto.
Nel frattempo, centomila soldati dell'Esercito di autodifesa sono tuttora impegnati nelle regioni colpite dal disastro: insieme a migliaia di volontari hanno iniziato a sgomberare le macerie, ripulire i porti e le strade. C'è da aiutare e nutrire 250 mila sfollati senza più casa né - per ora - lavoro. A questo proposito, il governo di Tokyo si aspetta una contrazione della crescita economica nazionale fino allo 0,5% nel prossimo anno fiscale, che in Giappone inizia il primo aprile. «Dobbiamo tenere in mente che a causa del terremoto la produzione potrà rallentare in molte zone per un cospicuo periodo di tempo», ha chiarito l'altro giorno il ministro delle Politiche economiche Kaoru Yosano. Meglio rimboccarsi le maniche.
Paolo Salom
25 marzo 2011

mercoledì 23 marzo 2011

Basi antisismiche per i Bronzi di Riace

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“Nature” cita Gelmini nel confronto tra scandali accademici


Il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini sbarca sulle pagine di Nature, ma a valerle una citazione sulla rivista culto degli scienziati di tutto il mondo non sono i suoi meriti politici o scientifici. Al centro dell’editoriale – intitolato “Notes on a scandal” (note su uno scandalo) – un confronto con il collega tedesco, dimessosi nelle scorse settimane a causa dello scandalo sollevato dalla tesi di dottorato copiata.

L’articolo la prende un po’ larga, partendo addirittura dalla biologia: “Il modo in cui un organismo viene colpito dalla mutazione di un gene, varia a seconda del contesto genetico di quel particolare organismo” spiegano quelli di Nature. E la metafora è presto spiegata. “Allo stesso modo, gli effetti di un presunto “scandalo” accademico, possono avere conseguenze diverse a seconda del background culturale di un data comunità”. Si spiegherebbero così dunque, gli epiloghi tanto diversi di due vicende simili ma ambientate rispettivamente in Germania e in Italia: quella di Karl-Theodor zu Guttenberg e di Maria Stella Gelmini, entrambi laureati in legge, entrambi – a sentire la basonata rivista – con uno scheletro nell’armadio dei titoli accademici.

Come mai – si chiede l’editorialista di Nature – il ministro della Difesa tedesco si è dimesso nel giro di 15 giorni, dopo aver scandalizzato l’opinione pubblica per aver copiato alcuni paragrafi della sua tesi di dottorato, mentre in Italia nessuno ha battuto ciglio, nel 2008, alla notizia che il ministro dell’istruzione è volata da Brescia a Reggio Calabria per passare l’esame di Stato da avvocato? “La differenza sembra basarsi su quanto ciascun governo reputi minacciosa l’arma della correttezza morale – e su quanto è pericolosa la comunità accademica quando la impugna”, conclude l’editoriale.

Si sprecano, naturalmente, i commenti degli accademici italiani sul sito della rivista, dove l’articolo è riportato (in inglese). Alcuni reputano abbastanza strano che una rivista scientifica dedichi spazio a un confronto legato più al mondo del gossip politico che a quello della ricerca, e si affrettano a produrre dei distinguo tra il caso tedesco e quello italiano. Altri chiosano: “Noi scienziati italiani non abbiamo parole per ringraziare Nature per questo editoriale”. Per qualcuno infine la questione (morale) è chiara: “Il ministro ha sostenuto l’esame a Reggio Calabria per avere un vantaggio personale, o perché era in vacanza da quelle parti?”.

Nei dipartimenti il futuro delle Università

da sito www.lastampa.it del 23.3.2011

PAOLO BERTINETTI*




Caro direttore,

la riforma dell’università prevede che i Dipartimenti, luogo della ricerca, siano anche il luogo della didattica; e che i corsi di laurea facciano capo ai Dipartimenti e non alle Facoltà. Ma queste ultime, magari chiamandole Scuole, potranno (in certi casi dovranno) continuare ad esserci per coordinare la didattica. In alcuni atenei (a Roma in primis, a quanto pare), di fatto i cardini della macchina universitaria continueranno ad essere le Facoltà. Per gattopardismo? Forse. Ma soprattutto perché i corsi di laurea, così come sono previsti dal Ministero, sono stati costruiti (per caratteristiche e per requisiti) con riferimento alle Facoltà.



In altre sedi, invece, si vuole cambiare. Le prime vittime del cambiamento rischiano di essere le Facoltà di Lingue. Ci sono voluti decenni perché l’accademia italiana accettasse l’idea che l’insegnamento delle lingue e letterature straniere è cosa di grande importanza. Gli studenti (e le loro famiglie), avendo un punto di riferimento chiaro e dichiarato, cioè le Facoltà di Lingue, hanno risposto in modo massiccio e convinto. Perché veniva proposto un tipo di studio che interessava e che dava qualche prospettiva in più: i laureati in Lingue (come dicono le statistiche ufficiali e le stesse ditte di collocamento) sono quelli che più rapidamente trovano un posto di lavoro. E quindi, data la loro utilità, dove si può, da Genova a Lecce, si cerca di abolirle. Si cerca di annegarne la specificità in grandi strutture (Scuole di studi umanistici, o simili, cioè le attuali Facoltà di Lettere), dove gli insegnamenti e i docenti «stranieristi» conteranno poco o nulla - mentre gli studenti serviranno a far numero.



Ma con la riforma non sono forse i Dipartimenti il luogo della didattica? Infatti è da lì che parte la manovra. In diversi atenei ci si accinge a fare sparire i Dipartimenti specificamente linguistici, accorpandoli con altri. Prendiamo il caso di Torino, dove i docenti di lingue e letterature straniere sono presenti soprattutto in un Dipartimento. È ovvio che esso debba diventare il luogo della didattica «stranieristica», mentre una Scuola dovrebbe poi provvedere, come dice la legge, al coordinamento con gli altri Dipartimenti interessati. Invece, in nome del cambiamento, cioè del ritorno a 20 anni fa, c’è chi sostiene che quel grosso Dipartimento deve sparire, per dar vita, insieme ad altri, a un megadipartimento - che altro non sarebbe che la Facoltà di Lettere. Oppure, poiché la proposta sembra non avere successo, si cerca di convincere vari docenti ad «emigrare» altrove, per impoverirne la consistenza. Ma nel caso torinese, come in altri, quel che colpisce è il tentativo di usare la riforma per cancellare la più evidente scelta di modernità effettuata dall’Università italiana. Altro che gattopardismo. Qui si vuole cambiare tutto non perché tutto resti com’è, ma perché tutto torni ad essere com’era nel secolo scorso.



*Preside alla facoltà di Lingue dell’Università di Torino

martedì 22 marzo 2011

Così la riforma Gelmini ha fermato le Università

Allarmi e proteste ormai non si contano: la legge - e si sapeva - ha bisogno di molteplici decreti che il governo dimentica: le funzioni della ricerca (tutte), la chiamate di progettisti, associati e docenti sono bloccate. Risparmi? No, paralisi.
di CORRADO ZUNINO su www.repubblica.it

ROMA - La Legge Gelmini, oggi, ha fermato le università italiane. A partire dal mondo della ricerca, l'asset più citato, il più fragile in verità. Il motivo principe del motore fermo, e quindi dello spaesamento di matricole, studenti di lungo corso, assegnisti, ricercatori, finanche dei "prof" vicini alla cattedra, dipende dal fatto che la riforma universitaria è un tomo lungo e complesso e i decreti attuativi di cui abbisogna per essere trasformata in sostanza richiederebbero Consigli dei ministri in seduta permanente e non occupati dall'incandescente quotidianità della cronaca nazionale e internazionale.

Ci sono tre fonti che oggi consentono di certificare il "blocco universitario": le voci degli studenti universitari, i blog dei ricercatori (in particolare della Rete 29 Aprile), le proiezioni della Cgil scuola e ricerca. Uno dei nodi universitari è il nuovo ciclo del dottorato di ricerca: non può essere avviato perché occorrerebbe un decreto ministeriale, appunto, su proposta dell'Anvur, l'associazione nazionale di valutazione che è ancora lontana dall'essere operativa. Con la riforma tutte le borse di studio post-laurea sono state abolite, ad eccezione degli assegni di ricerca: i nuovi assegni sono bloccati, però, perché occorre un decreto ministeriale che ne fissi l'importo minimo. Gli assegnisti, va ricordato, nelle università italiane sono 16 mila.

Non è ancora chiaro se si potranno

far partire i bandi per i nuovi ricercatori a tempo determinato: secondo la Cgil violerebbero la legge Tremonti che riduce drasticamente la possibilità di assunzioni a tempo determinato nella pubblica amministrazione (le assunzioni del 2011 dovranno essere inferiori al 50% delle assunzioni dell'anno precedente). E, tra l'altro, occorrerebbero regolamenti d'ateneo che oggi non possono vedere la luce visto che siamo ancora alla fase precedente ai regolamenti: la revisione degli statuti. Lo hanno già messo in evidenza gli universitari della Rete della conoscenza: la "Gelmini" esclude dalla partecipazione ai progetti di ricerca gli attuali borsisti e contrattisti, gli studenti della triennale e delle scuole di specializzazione, gli studiosi stranieri. Difficile non pensare che questa scelta non sia impugnabile come "discriminazione".

Sono bloccate, e il motivo va ricercato nella necessità di mettere a posto i regolamenti d'ateneo, le chiamate su posti di associato dei futuri abilitati e poi chi volesse assumere qualcuno degli attuali idonei non chiamati (oltre 1.500) non potrebbe beneficiare dei fondi del piano straordinario previsto dall'ultima legge di stabilità (anche qui siamo in attesa di un decreto ministeriale).

Questo è lo stato dell'arte dell'università italiana. Se si guarda in avanti, la situazione si fa disperante. Nel 2012 la maggior parte degli atenei italiani, condannati a bilanci in rosso fisso, potrebbe trovarsi nell'impossibilità di reclutare docenti, a tempo determinato, a tempo indeterminato, per i vincoli finanziari aggravati dai nuovi tagli al finanziamento ordinario e dalle nuove regole di calcolo dei costi. La Cgil stima che il pensionamento previsto per il prossimo quinquennio porterà fuori dal sistema universitario il 50% dei professori ordinari e il 25% di associati e ricercatori: la metà non sarà reintegrata e ogni anno l'università italiana assisterà alla fuoriuscita di 600 professori ordinari mentre l'ingresso dei mille associati annunciati sarà frenato dal fatto che il 50% degli atenei non potrà fare assunzioni. Il taglio ai corsi di studio eccessivi e bizzarri, così voluto dal ministro Gelmini, si realizzerà naturalmente per la moria degli insegnanti.

I ricercatori? Tra pensionamenti e passaggi alla docenza si ridurranno di 2.000 l'anno. Un ricercatore borsista dell'Università di Parma, Cristian Cavozzi, dipartimento di Scienze della terra, ha segnalato la sua personale situazione. Il borsista da tre anni è impegnato insieme ad altri due colleghi in un progetto di ricerca finanziato interamente dall'Eni, ma nell'ultima stagione tutto è stato bloccato: "Non rientra più nelle forme contrattuali previste dal decreto legge". Per il 2011 la legge Gelmini non prevede il rinnovo per il bando ad hoc. Laura Romanò, rappresentante dei ricercatori, conferma: "Mancano i decreti attuativi, la legge ha azzerato tutto. Si rischia di andare avanti così per molto tempo". I tre ricercatori propongono una "moratoria" in nome del buon senso: "Non si potrebbe concedere una deroga alle borse in fase di rinnovo? Almeno prorogarle di qualche mese per dare un minimo di garanzie di continuità ai progetti di ricerca in corso". "La riforma", spiega Alessio Bottrighi, presidente dell'Associazione precari della ricerca, "non chiarisce se i vecchi assegni di ricerca possono essere rinnovati. E per i nuovi bisogna attendere il decreto del ministro". I vuoti normativi, dice Mimmo Pantaleo, segretario della Cgil scuola, "sta bloccando ogni forma di reclutamento e portando ad autentici licenziamenti di massa".
(22 marzo 2011)

lunedì 21 marzo 2011

Rettore Università di Sassari si candida a presidenza CRUI

Sassari, 21 mar. - (Adnkronos) - Il rettore dell'Universita' di Sassari, Attilio Mastino, si candida alla presidenza della Conferenza dei rettori delle Universita' italiane (Crui). Lo ha fatto con una lettera inviata a tutti i rettori, con la quale ha proposto la sua candidatura alla presidenza della Conferenza dei rettori delle universita' italiane.
''Negli ultimi anni l'Universita' italiana - si legge nella lettera che Mastino ha inviato ai colleghi - ha subito un fortissimo attacco mediatico telecomandato e non e' stata in grado di difendersi in modo adeguato, anche sul piano della comunicazione. Gli ultimi avvenimenti testimoniano che la risposta agli attacchi subiti dall'Universita' e' stata inadeguata e deludente, debolissima. Da tempo il Ministro diserta le riunioni della Crui ed ha rinunciato al confronto con le singole Universita'''.
''Il grido del vasto e significativo movimento di protesta del dicembre scorso - prosegue Mastino - che si e' sviluppato negli Atenei, nelle aule e sulle terrazze delle Facolta', non e' stato raccolto dalla Crui: eppure le proteste intendevano denunciare gli evidenti limiti della Grande Riforma e il grave sotto-finanziamento del Sistema Universitario Italiano. Restare asserragliati nel Palazzo non puo' essere un modo per risolvere i problemi''.

L'università e la «mistica degli statuti»

da www.ilsole24ore.com del 21.03.2011

La riforma Gelmini dell'università impegna gli atenei al riordino della governance. Sei mesi di tempo, più tre di "supplementari".
Ma perché cambiare gli statuti? Se è vero che molti atenei non sono stati in grado di controllare adeguatamente bilanci e reclutamento, spesso sforando i limiti di legge, è pure vero che molti altri - a parità di regole – hanno tenuto le cose a posto. Questa stessa differenza dimostra de facto che l'autonomia funziona e che il problema dell'efficienza del sistema non è, almeno non solo, nei meccanismi di governance.
Perché cambiare allora? Perché anche chi ha operato bene lo ha fatto con grande fatica districandosi tra competenze attorcigliate e ripetute di un sistema “bicamerale imperfetto” in cui senato accademico e Consiglio di amministrazione, ma anche giunta, commissioni istruttorie e collegi vari, si occupano tutti di tutto.
Intendiamoci, il fatto che molti argomenti siano discussi in più consessi non è, per sé, un male. Si potrebbe sostenere che è un modo per garantire trasparenza e verificabilità. Purtroppo non è così perché la ripetizione comporta tempi spesso incompatibili con il mutare degli eventi esterni, mentre la molteplicità dei consessi diluisce e sfuoca le responsabilità.
La responsabilità, appunto. La riforma (legge 240) riassegna "ex lege" al senato accademico quella della politica culturale e scientifica e al Cda quella della spesa e del controllo di gestione, inclusa la decisione finale sulla attivazione dei corsi di studio. Impone anche la composizione degli organi: massimo 35 membri al primo, e 11 al secondo di cui almeno tre non appartenenti all'ateneo. La presenza di esterni viene letta da alcuni come un prodromo del condizionamento di privati sulle università. È un timore infondato, credo, non foss'altro perché la presenza di non-accademici è già oggi contemplata da molti statuti. D'altra parte una distinzione di funzioni molto marcata tra senato accademico e CdA e una maggiore competenza in chi deve leggere e approvare i bilanci potrebbe portare chiarezza nelle scelte programmatiche e un controllo della spesa più adeguato.
Ci sono, tuttavia, altre prescrizioni che sembrano attrarre meno attenzioni e che invece avranno impatto molto significativo. Vediamone alcune:
1) i dipartimenti, oltre che della ricerca, dovranno farsi carico dello svolgimento delle attività di formazione fin qui gestite dalle facoltà attraverso i corsi di studio. Questa convergenza richiederà una profonda riorganizzazione dei processi (accoglienza studenti, attività di segreteria, piani di studio, ecc,) e in parte dei luoghi (laboratori, biblioteche, aule ecc.) attualmente gestiti in maniera separata e distinta dalle strutture didattiche e di ricerca. La conseguente riconfigurazione gestionale, soprattutto nei mega atenei, avrà un impatto non indifferente sull'organizzazione del lavoro del personale tecnico e amministrativo oltre che dei docenti. I dipartimenti saranno cosa ben diversa da quelli attuali;
2) la confluenza della didattica e della ricerca porterà nei dipartimenti anche il budget del personale docente. Si potrà così superare la attuale stravaganza di "posti" banditi dalle facoltà sulla base delle esigenze didattiche mentre i luoghi di afferenza univoca e di ricerca sono i dipartimenti. Il dualismo dipartimento-facoltà / ricerca-didattica è un po' all'origine di molti dei problemi dell'Università, non ultimo quello della valutazione della didattica e della ricerca;
3) c'è poi il compito delle strutture di coordinamento della didattica alle quali compete dare chiarezza all'offerta formativa. Bisognerà che le diverse aree o scuole o come si chiameranno mettano gli studenti in condizione di orientarsi senza "navigatore" tra percorsi ben identificabili dalla laurea triennale, alla magistrale, fino al terzo livello della formazione, il dottorato di ricerca. Il dottorato è ancora il grande assente dai nostri dibattiti mentre i grandi atenei d'Europa hanno strutture formative organizzate intorno alle scuole dottorali.
Insomma, la riforma degli statuti, anche se imposta ex lege a strutture dotate di autonomia, è una occasione da non perdere per rilanciare il nostro sistema universitario. Attenzione alla "mistica degli statuti", tuttavia. Statuti e regolamenti sono solo metà, a volte anche meno della metà, di quanto serve al funzionamento delle università. L'altra metà è fatta dagli uomini e dalle donne e dagli obiettivi che perseguono.

domenica 20 marzo 2011

Perchè non possiamo liberarci dalle mafie

Luigi Cavallaro - 24 Luglio 2009 da www.economiaepolitica.it
È un esperimento mentale che mi è già accaduto di suggerire tempo addietro, e immutato essendo rimasto il contesto vale forse la pena di riproporlo.
Immaginate d’essere a Palermo, nella piazza dove si erge l’imponente Palazzo di Giustizia, e da lì di risalire per il corso Olivuzza, uno degli assi principali del popolare quartiere Zisa-Noce. Non avrete percorso nemmeno cinquanta metri dal luogo dove si amministra la giustizia civile e penale che vi sembrerà d’esserne mille miglia lontano. Vi trovate infatti in una zona in cui non c’è alcuna forma di controllo né per il commercio, né per l’edilizia, né per il traffico, né per altro: chiunque può allestire una bancarella e vendere quel che vuole, chiunque può occupare lo spazio pubblico con un gazebo, sedie e tavolini, chiunque può parcheggiare come e dove crede, chiunque può piazzarsi ad un incrocio con una motoape (“a lapa”, come si chiama qui) e smerciare frutta e verdura, pesce, pane, perfino ricci appena pescati.
Le autorità pubbliche non si curano di questo proliferare di attività “autogestite”, cioè fuorilegge: negli ultimi otto anni, i residenti del quartiere – tra cui chi scrive – hanno contato sei interventi della polizia municipale, cessati i quali (cioè andati via i vigili) tutto è tornato come prima. Non parliamo della polizia tributaria o dei nuclei antisofisticazioni dell’azienda sanitaria locale: gli “ambulanti-stanziali” del luogo non sanno nemmeno chi siano, come non sanno dell’obbligo di emettere gli scontrini fiscali o di regolarizzare i rapporti di lavoro. Perfino l’azienda municipalizzata che cura (così dice) la pulizia rispetta lo status quo e si guarda bene dal rimuovere nottetempo le cassette di frutta vuote di cui tutti si avvalgono per delimitare il loro “posto di lavoro”.
Essendo Palermo retta da una giunta di centro-destra, si potrebbe essere tentati di non stupirsene: fenomeni del genere non sono forse espressione di quel laissez faire, laissez passer che la destra reca inscritto nel proprio dna? E cosa è in fondo il “mercato” se non codesto brulichio di iniziative autonome, ciascuna espressione della “soggettività” di chi la realizza e sempre insofferente nei confronti dei “lacci e lacciuoli” della regolamentazione pubblica?
Sennonché, ogni medaglia ha il suo rovescio e il “lasciar fare” dell’amministrazione palermitana non fa eccezione. Il motivo sta nel fatto che nessuna attività economica può prender piede se non vi è una qualche forma di garanzia dei diritti di proprietà. Nessuno, per dirla altrimenti, può guadagnare qualche soldo pulendo i vetri ad un semaforo o vendendo chincaglierie sul marciapiede o facendo il posteggiatore abusivo se non è sicuro che nessun altro (indigeno o migrante che sia) gli toglierà quel posto. Un ordine, una “legalità”, deve dunque pur sempre emergere; la differenza semplicissima è che, in mancanza di quella assicurata dalle istituzioni pubbliche, che certo non possono ergersi a protettrici di situazioni contrarie alla legge, ne emerge una privata, basata – non meno semplicemente – sulla legge del più forte.
La mafia siciliana, la camorra napoletana, la ’ndrangheta calabrese, le triadi cinesi, la yakuza giapponese, le loro non meno temibili “consorelle” balcaniche e, più in generale, tutte le “istituzioni” di questo genere, alla cui genesi assistiamo là dove i pubblici poteri chiudono un occhio (o tutti e due) sull’osservanza della legalità costituita, assolvono primariamente a questo compito: proteggere le transazioni che si svolgono nel circuito economico extralegale, si tratti di un posto da lavavetri, di una partita di eroina o di un appalto truccato. È per questo che il variegato e multicolore suq che si inscena quotidianamente nei quartieri popolari di Palermo non degenera mai in caos: nonostante le apparenze, c’è sempre chi controlla, assegna posti, garantisce pagamenti, dirime controversie (e riscuote tributi). Ed è per questo che è sbagliato credere che la mafia sia puramente e semplicemente un’organizzazione criminale: se così fosse, ce ne saremmo sbarazzati già da un pezzo.
Ora, c’è un fatto che non è quasi mai posto in correlazione con il quadro macroeconomico sparagnino già impostoci da Maastricht e ora dai tempi di crisi e che però, a ben guardare, ne è un figlio naturale, ed è lo sviluppo delle attività economiche illegali. È un fenomeno che ha interessato anche quelle economie periferiche su cui, anni addietro, si sono abbattute le famigerate misure di “aggiustamento strutturale” dell’Fmi, e ha alla base una semplicissima motivazione: se si prosciuga l’acqua per l’economia legale, i pesci debbono trovarne altra, più sporca, in cui nuotare. Insomma, debbono “arrangiarsi”.
È questa la ragione principale per cui l’illegalità endemica in cui vivono Palermo e il Mezzogiorno non può essere efficacemente contrastata da alcuna azione repressiva. Il problema, infatti, è che oggi le classi dirigenti possono continuare a godere del consenso dei “governati” soltanto se, in cambio dei diritti che prima erano tenute ad assicurare, sono disposte a “lasciar fare”. Detto altrimenti, esse possono evitare che i governati si ribellino alla mortificazione della loro cittadinanza sociale imposta da bilanci pubblici in costante contrazione solo garantendogli l’impunità sul versante del “sommerso” o dell’“abusivismo di necessità”.
Sta qui la vera ratio della “tolleranza” delle istituzioni nei confronti delle piccole (e spesso nemmeno piccole) illegalità di cui al Sud siamo quotidianamente testimoni; si spiega così la crescita esponenziale delle zone – quartieri, sobborghi, talora interi paesi – letteralmente sottratte all’imperio della legge. E sta qui, specularmente, la ragione del persistente (e verosimilmente duraturo) successo della mafia, della camorra e della ’ndrangheta: organizzazioni come queste, per quanto paradossale possa sembrare, svolgono un’importante funzione di mediazione sociale e di composizione delle controversie nel territorio eslege in cui operano e proprio su tale ruolo fondano quel consenso sociale diffuso che è indispensabile per la buona riuscita delle loro attività criminali. Non a caso Giovanni Falcone disse che, essendo in Sicilia la struttura statuale del tutto deficitaria, la mafia aveva saputo riempire questo vuoto a suo vantaggio, ma tutto sommato aveva contribuito a evitare per lungo tempo che la società siciliana sprofondasse nel caos. Perché mai, altrimenti, l’80% degli imprenditori siciliani pagherebbe il pizzo?
Un ruolo del genere, discreto, lontano dai clamori delle stragi, “invisibile” ma non per ciò meno significativo e lucroso, candida peraltro le organizzazioni mafiose a interlocutori privilegiati delle classi dirigenti nei loro rapporti con le classi medie e, soprattutto, con i ceti popolari. Non è certo nuova la capacità delle classi dirigenti meridionali di utilizzare la forza paramilitare delle organizzazioni mafiose come strumento di controllo capillare del territorio, da impiegare ora in funzione anticentralista ora antipopolare, ora innalzando il vessillo del “meridionalismo” ora quello dell’ordine costituito, ma è certo che, nel quadro attuale, non c’è patto elettorale coi ceti popolari che possa reggere senza una “garanzia” mafiosa: la “fine delle ideologie”, che poi è la fine di appartenenze politiche segnate da idealità e valori, rende l’elettorato erratico e ancor più diffidente che in passato verso i “politici”, e non si dà per questi ultimi alcuna possibilità di controllarlo se “qualcuno” non si fa garante che le loro promesse – per quanto miserabili – saranno mantenute.
Si obietterà che in quanto detto non c’è nulla di nuovo, ché storicamente è stato questo il rapporto fra governanti, governati e mafia nel Mezzogiorno. In certa misura è vero, purché non si dimentichi la differenza fondamentale: oggi l’illegalità diffusa è in certa misura necessitata, perché, se volessero realmente procedere lungo la strada della repressione, le classi dirigenti dovrebbero fare qualcosa che il quadro macroeconomico non consente più, cioè accordare in forma di diritti quei beni e servizi di cui i governati non dispongono e che attualmente conseguono ricorrendo ai circuiti illegali; altrimenti, scoppierebbe una rivolta. (Che poi le classi dirigenti abbiano solo da guadagnare, in termini di potere e denaro, dalla criminalità dei diseredati, e anzi storicamente abbiano usato quest’ultima come paravento per i propri crimini, è fatto ben noto e sul quale non vale certo immorare.)
Un “continuum” fra organizzazione mafiosa, concorrenti “esterni” e semplici conniventi assai simile a quello qui descritto è alla base del concetto di “borghesia mafiosa”, elaborato una quarantina d’anni fa da un marxista siciliano ormai dimenticato, Mario Mineo. In quel tempo, Leonardo Sciascia ammoniva che la “linea della palma” era salita già oltre Roma. Oggi che, complice l’incipiente desertificazione, la palma è giunta fino a Modena (e a Duisburg), quel concetto spiega l’ostilità diffusa verso il tentativo della magistratura di impiegare il “concorso esterno” per attrarre nell’ambito della rilevanza penale pratiche bipartisan che il senso comune giudica quasi “necessitate” (per fare un solo esempio: se il mafioso o il camorrista controlla voti ci debbo pur parlare, no?). Giustifica lo iato persistente fra i proclami bellicosi dei governi che si alternano a Palazzo Chigi e la realtà di un territorio che sempre più si auto-organizza secondo le uniche logiche disponibili (quelle mafiose, appunto). Conferma che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti ancora invano.

Guerra

da "la parola" di Carlo Galli su repubblica.it del 19.3.2011

GUERRA (dall'antico germanico werra). Combattimento militare fra collettività politiche.
La guerra è una modalità d'espressione e di manifestazione della politica, in quanto lotta per il potere, per la supremazia, per vantaggi economici.  Nel corso della storia innumerevoli sono le cause, le giustificazioni, l'intensità, le modalità di conduzione della guerra, le immagini del nemico.

Dopo l'età delle guerre giuste medievali  -  che fanno della guerra la riparazione di un torto  -   e dopo le  guerre civili di religione della prima età moderna, che hanno mostrato l'insostenibilità del  tradizionale legame fra guerra e sacro,  la piena modernità  tende a mettere la guerra sotto il controllo della politica, e a farne un diritto di sovranità; è quindi legittima solo la guerra fra Stati, che si affrontano con eserciti regolari.

Nel XX secolo l'ideologizzazione della politica, lo spostamento della guerra anche  all'interno (le rivoluzioni, le guerre civili), l'aumento smisurato del potenziale distruttivo delle armi, il coinvolgimento dei civili e dell'intera società nella guerra totale, danno nuovo vigore alle critiche che hanno accompagnato la guerra (da Erasmo a Kant) e spingono gli Stati (anche l'Italia repubblicana) ad abbandonare la guerra come diritto sovrano, e come mezzo normale di risoluzione delle controversie internazionali, per promuovere istituzioni internazionali (la prima è l'Onu) che, in caso di
aggressione di uno Stato a un altro, o anche ai propri cittadini, regolino l'uso della forza secondo il diritto internazionale. In questa logica la guerra è un'operazione di polizia, che pone rimedio a un grave crimine.

Al di là del dato formale e  normativo la guerra continua tuttavia a esistere, soprattutto come guerriglia, terrorismo e controterrorismo, cioè in forme asimmetriche, in cui gli Stati non fronteggiano le forze armate di altri Stati, ma  combattenti irregolari difficilmente distinguibili dai civili. (19 marzo 2011)

sabato 19 marzo 2011

La tecnologia più rischiosa e pericolosa che si conosca può essere messa nelle mani del popolo più pasticcione e cialtrone che ci sia al mondo?

 di Piergiorgio Odifreddi su repubblica.it del 15-3-2011

Le drammatiche notizie che arrivano dal Giappone, relative alle esplosioni nella centrale di Fukushima, si configurano come una vera e propria tragedia nucleare nella tragedia tellurica e tsunamica. Sarebbe singolare che proprio il primo, e finora unico, paese a essere stato vittima di esplosioni nucleari belliche causate da attacchi esterni, diventasse anche il primo a rimanere vittima di esplosioni nucleari tecnologiche causate da impianti interni.
Nonostante le ferite e la memoria di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone aveva infatti scelto di votarsi ugualmente all’energia nucleare, confidando come ogni Apprendista Stregone di poterla controllare. Ed era diventato uno dei tre paesi che le si affidano in maniera sostanziosa, per i propri fabbrisogni energetici: con le sue 65 centrali, si poneva infatti dietro agli Stati Uniti e prima della Francia, che ne hanno rispettivamente 104 e 58.
Il patto col diavolo non ha evidentemente funzionato, e ora Fukushima andrà ad aggiungersi ai nomi maledetti di Three Miles Island negli Stati Uniti nel 1979, e di Chernobyl in Unione Sovietica nel 1986. Anche se già un’altra volta, nel 1999 a Tokaimur, il Giappone aveva rischiato il disastro.
Come tutti sanno, gli incidenti costituiscono comunque solo una delle due facce del problema nucleare. L’altra è, ovviamente, lo smaltimento delle scorie e dei rifiuti radioattivi: non solo delle centrali, ma anche industriali, ospedalieri e bellici. Un problema che, a tutt’oggi, rimane irrisolto. E che, a differenza delle casualità nelle quali l’ottimismo potrebbe anche far sperare di non cadere, si configura invece come una necessità dalla quale il realismo ci assicura che non si può pensare di evadere.
Gli Stati Uniti hanno provato ad affrontarlo, costruendo un enorme sito a Yucca Mountain nel deserto del Nevada, a un centinaio di chilometri da Las Vegas, in cui concentrare appunto le scorie e i rifiuti nazionali. Doveva essere terminato nel 1998, e invece ci vorranno ancora dieci anni per completarlo. Quand’anche diventasse operativo, sarebbe comunque già insufficiente per i fabbrisogni passati, lasciando aperto il problema per il futuro. Il condizionale è d’obbligo, però, a causa delle polemiche che la sua costruzione ha sollevato, dai costi ai livelli di contaminazione dell’ambiente.
La domanda cruciale è: se nemmeno i paesi più tecnologicamente avanzati e meglio organizzati riescono a gestire i problemi del nucleare, non è una vera e propria follia che proprio l’Italia abbia recentemente deciso di affidarglisi? Un paese che non riesce a organizzare nemmeno la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ordinari, può veramente pensare di essere in grado di riuscire là dove hanno fallito tutti gli altri?
Molto più dei suoi patetici e irrilevanti scandali a sfondo sessuale, sono proprio questi progetti tecnologici a rendere il Presidente del Consiglio un letterale pericolo pubblico, e sono proprio essi che dovrebbero preoccupare gli italiani e spingerli a liberarsi di lui. E anche del suo singolare Ministro per l’Ambiente, che è forse l’unica al mondo a interpretare la sua funzione non nel senso di salvaguadarlo, questo ambiente, ma di metterlo in serissimo pericolo spingendo affinchè la tecnologia più rischiosa e pericolosa che si conosca venga messa nelle mani dal popolo più pasticcione e cialtrone che ci sia al mondo.

Voltafaccia all'italiana

 di Piergiorgio Odifreddi su repubblica.it del 19.3.2010

E’ significativo e appropriato che, nel momento delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, gli italiani, o almeno i rappresentanti istituzionali da loro liberamente eletti, soffino sulle candeline della torta confermando una delle nostre doti più caratteristiche: la capacità di fare i peggiori voltafaccia a cuor sereno, adducendo le motivazioni più false.
Il più vergognoso di questi voltafaccia è forse quello nei confronti di Gheddafi e della Libia. Un anno fa abbiamo dovuto assistere all’accoglienza da terzo mondo riservata al colonnello, col quale Berlusconi aveva addirittura firmato un trattato d’amicizia fra i popoli libico e italico. Durante lo scoppio della crisi, silenzio. E ora siamo pronti non solo ad assistere silenti all’invasione del paese, ma a parteciparvi attivamente, fornendo basi e truppe.
Forse che Gheddafi è diverso oggi, da com’era un anno fa? Ovviamente no. Il voltafaccia ha motivazioni molto terra terra, benchè il ministro della Difesa abbia coraggiosamente assicurato che nelle operazioni i nostri non metteranno piede sull’ex paese amico. Queste motivazioni sono che gli Stati Uniti e la Francia hanno deciso di intervenire, e c’è il rischio che ci sostituiscano nello sfruttamento commerciale del paese.
Naturalmente, le motivazioni di Obama e Sarkozy non sono molto più elevate. In fondo, presiedono entrambi paesi che sono ancora letteralmente coloniali: nel senso di possedere letterali colonie, che vanno da Puerto Rico alla Nuova Caledonia. E si tratta di paesi che hanno sempre avuto interessi in generale nel Nord Africa, e in particolare in Libia: ad esempio, il primo intervento armato che gli Stati Uniti effettuarono al di fuori del continente americano fu appunto un bombardamento su Tripoli, nel … 1804!
Ma restiamo ai nostri voltafaccia. Un altro è seguìto agli incidenti nucleari causati dal terremoto del Giappone. Mentre tutto il mondo faceva un esame di coscienza e meditava sull’energia atomica, il governo italiano continuava a dichiarare imperterrito che avrebbe mantenuto in vita il programma di costruzione delle centrali nucleari. Salvo accorgersi che la cosa poteva danneggiarlo dal punto di vista elettorale, come si è lasciata scappare “fuori onda” l’ineffabile ministro per l’Ambiente. E allora, marcia indietro, senza nessun problema.
Naturalmente, non possiamo dimenticare che è proprio grazie a questa nostra dote naturale che siamo risultati i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Gli unici, cioè, che sono sempre stati dalla parte dei vincitori, per tutto il conflitto: prima con l’asse, e poi con gli alleati. All’epoca si diceva che eravamo il doppio di quanti sembravamo, cioè 90 milioni: 45 milioni di fascisti prima della guerra, e 45 milioni di antifascisti dopo.
D’altronde, a proposito di fascisti, cos’altro era il Concordato del 1929, se non un altro storico voltafaccia? Personale, dell’ateo Mussolini. E nazionale, dell’Italia risorgimentale che aveva sconfitto lo Stato Pontificio ed era sorta sulle sue ceneri. Per 68 anni, dal 1861 al 1929, appunto, quell’Italia era rimasta laica e libera, e da un giorno all’altro si era ritrovata clericale e coatta.
Eppure, nelle celebrazioni di questi giorni quell’Italia è assente. Perchè dovunque, in prima fila tra le autorità alle cerimonie, si vedono vescovi e cardinali. Quando non avviene il contrario, e ad essere in prima fila sono invece le autorità alle celebrazioni religiose. Addirittura, il 17 marzo, alla solenne messa celebrata dal Segretario di Stato e conclusa con il canto del Te Deum: che i preti, naturalmente, hanno ragione a cantare, per ringraziare Dio di aver reso così malleabili e generosi i governanti italiani.
Naturalmente, tra i cantanti del coro ce n’erano molti che stavano facendo anch’essi il loro bel voltafaccia. A partire dal presidente della Repubblica, (ex) comunista e ateo come il miglior Togliatti: responsabile, quest’ultimo, dello storico voltafaccia alla Costituente che causò il recepimento del Concordato clerico-fascista nell’articolo 7 della Costituzione laico-repubblicana.
Noi italiani siamo fatti così. E questo ci infonde speranza, perchè presto o tardi faremo un nuovo voltafaccia, e gireremo le spalle anche a Berlusconi. Non si troverà più uno che ammetterà che l’aveva votato, così come una volta non si trovava uno che ammettesse di aver votato la Democrazia Cristiana, che pure era il partito di maggioranza relativa. A festeggiare l’Italia dei voltafaccia, io aspetterò quel momento, anche se sarà ormai troppo tardi per gioire.

domenica 13 marzo 2011

Terremoto in Giappone alcune migliaia di volte più forte di quello dell'Aquila: sposta l'asse terrestre di 10 cm

Non sono solo le notizie provenienti dal Giappone relative al numero delle vittime dei dispersi per lo tsunami che sale di minuto in minuto ad allarmare il mondo: Il terremoto di magnitudo 8,9 che ha colpito il Paese asiatico ha infatti determinato lo spostamento dell’asse terrestre di 10 centimetri. E’ quanto emerge da una prima stima dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Davvero impressionante, dunque, l’impatto del sisma che “è stato alcune migliaia di volte più violento di quello dell’Aquila del 6 aprile 2009,” come rivela il funzionario di sala sismica dell’Ingv, Francesco Mele.
Il cambiamento sarebbe stato addirittura superiore rispetto a quello generato dalla scossa di magnitudo 9,1 avvenuta il 26 dicembre 2004 a Sumatra, in Indonesia. In quel caso la modifica fu di “soli” 6 centimetri. Solo il terremoto del Cile nel 1960 (il sisma più distruttivo della storia recente) provocò più danni geologici. In ogni caso  secondo il Centro di Geodesia spaziale dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) è indispensabile acquisire ancora diversi rilevamenti prima di avere la misura esatta.

sabato 12 marzo 2011

Traversa (PDL) su nuova facoltà di Medicina

 da www.strill.it del  12.3.2011

“La Calabria non ha bisogna di una seconda facoltà di medicina, perché quella di Catanzaro rappresenta un’eccellenza nel sistema universitario italiano e, semmai, deve essere sostenuta e potenziata. La demagogica proposta del presidente della Provincia di Cosenza Mario Oliverio, esponente di spicco del Partito Democratico e della sinistra, di istituire all’Università di Arcavacata una seconda Facoltà di medicina fa tornare la Calabria venti anni indietro e mira ad indebolire l’Università 'Magna Graecia' che, proprio nel settore della ricerca medica, ha raggiunto i più alti traguardi, come dimostra il recente riconoscimento della prestigiosa Via-Academy che l’ha collocata al primo posto nel Meridione per attività di ricerca dei propri docenti". E' quanto afferma l'on. Michele Traversa (Pdl), candidato a sindaco di Catanzaro, che prosegue: "Inutile dire che ci batteremo con tutte le nostre forze per contrastare una proposta basata sul fumo e sul nulla, ma che punta semplicemente a delegittimare una realtà universitaria di altissimo livello, a frantumare le poche risorse disponibili. D’altro canto, non capiamo le perplessità del presidente Oliverio e del centrosinistra cosentino: l’ateneo 'Magna Graecia' ed il suo prestigioso campus sonofacilmente raggiungibili in poco più di 40 minuti da Cosenza e la città di Catanzaro ha aperto le sue braccia ai tanti ragazzi provenienti da quella provincia. Nello stesso spirito unitario, Catanzaro non si sogna di mettere in discussione le prestigiose Facoltà di Lettere e di Ingegneria dell’Università di Arcavacata, frequentate da centinaia di ragazzi catanzaresi. Le risorse esistenti, statali e comunitarie, devono essere messe razionalmente al servizio dell’intero sistema universitario calabrese, premiando le eccellenze ed operando risparmi sui rami secchi. Non c’è dubbio che una seconda facoltà di medicina in Calabria, a meno di 80 chilometri didistanza da quella esistente, rappresenterebbe un monumento allo spreco chenessuno tollererebbe. Mi aspetto una presa di posizione ufficiale del sindaco Olivo e della sua Giunta che finora sono rimasti silenti di fronte non tanto ad un generico tentativo di scippo, ma ad una avventata e strumentale proposta che rischia di scavare nuovi solchi tra le città. Se ciò non avvenisse, sull’altare della comune appartenenza al centrosinistra, tutte le belle parole sprecate in questi anni a favore dell’Università si scioglierebbero come neve al sole. Il Popolo della Libertà di Catanzaro vigilerà in tutte le sedi, a cominciare dal Parlamento, perché la Facoltà di medicina dell’Università 'Magna Graecia' venga adeguatamente tutelata e difesa, quale primaria struttura di formazione e ricerca del Meridione. Ci batteremo – conclude Traversa - perché alla nostra Facoltà vengano assegnate più risorse, più mezzi, più persone in modo che la qualificata attività di ricerca nel campo medico raggiunga sempre più prestigiosi traguardi e che possa essere garantita a tutti i giovani calabresi una didattica di livello che formi lanuova classe medica del domani”.

venerdì 11 marzo 2011

I carrelli dei supermercati, un nido di batteri

da www.NEWSFOOD.com - 10/03/2011

Male anche le tastiere dei PC ed i sedili dei mezzi pubblici. Ma le precauzioni sono semplici

Il pericolo nei luoghi quotidiani. I carrelli dei supermercati sono un nido di batteri, potenzialmente in grado di portare ad infezioni molto insidiosi.
Tale informazione arriva da una ricerca dell'Università dell'Arizona, diretta dal professor Charles Gerba.
Il docente e la sua squadra hanno analizzato diversi oggetti quotidianamente usati da molte persone, poiché situati nei luoghi pubblici. Nella lista, oltre ai già citati carrelli dei supermercati, sono finiti gli accessori dei bagni (di treni ed aerei), i sedili dei mezzi pubblici, le pulsantiere degli ascensori e le tastiere dei computer.
In ogni caso, i risultati sono poco piacevoli: la combinazione tra pulizia carente ed utilizzo collettivo rende gli oggetti esaminati luogo ideale per il deposito di batteri.
Riguardo ai carrelli dei supermercati, gli esperti spiegano come i clandestini più comuni siano i batteri fecali (72% dei campioni) o l'Escherichia coli, l'origine di infezioni gastro-intestinali, genito-urinarie o addirittura meningiti nei bambini.
Per Gerba, il problema è (anche) nelle cattive abitudini: "Nei grandi magazzini si pensa che sia sufficiente disinfettare i bagni per evitare contaminazioni e non si pensa ai carrelli che la gente afferra toccandosi poi la bocca, il naso o gli occhi. Per non parlare dei carrelli degli aeroporti: una volta a bordo i passeggeri che li hanno afferrati toccano il cibo pulendosi le mani semplicemente con le salviette offerte dalle hostess".
Tuttavia, lo stesso capo-ricercatore spegne sul nascere ogni possibile allarmismo.
Per cominciare, aumentare la sicurezza è semplice: basta lavarsi le mani quando possibile.
Inoltre, quando si fa la spesa, è utile usare il più possibile i guanti usa e getta, limitando il contatto con oggetti ed alimenti.
Infine, in Italia gli standard di manutenzione e controllo sono più elevati che in America. Le catene di supermercati maggiori attuano un protocollo di pulizia che prevede un ciclo di lavaggio ogni 3 mesi per i carrelli, mentre per i cestini di plastica le strade sono due: sostituzione in caso di usura eccessiva oppure lavaggio.
FONTE: "Reusable Grocery Bags Contaminated With E. Coli, Other Bacteria" UANews.org, 24/06/010

 
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IL DESIDERIO DEL SULTANO E L’ETOLOGIA DELLA POLITICA

MAURIZIO FERRARIS da La Repubblica dell’8 marzo 2011

Si potrebbe raccontare il tutto nella forma di una lettera persiana. C´è un sultano che organizza dei festini nelle proprie residenze, con canti, balli e pratiche sessuali che derivano secondo alcuni dai riti di un principe nordafricano, secondo altri da una barzelletta raccontata nei caravanserragli. A questi riti partecipano, insieme al sultano, il visir, un giannizzero e fanciulle provenienti dai più vari strati sociali. Infatti i riti sono rigorosamente interclassisti e sembra anzi che preludano a forme di promozione sociale attraverso la politica. È così che l´eterna fiaba si rinnova, arricchendosi fin quasi al manierismo di particolari da Mille e una notte, come nel caso della ladra venuta dal Marocco. E che viene presentata come una parente del Khedivè d´Egitto. Se però dalla finzione di Montesquieu o dalla favola di Shérazade si volesse entrare nell´attualità politica ed esprimere qualche giudizio, il rischio più concreto sarebbe di venir tacciati di moralismo, di incomprensione della vita e della sua bellezza da pianta grassa, e dunque conviene metter subito le mani avanti.
Certo, l´immoralità del sovrano è vecchia come il potere, e nelle feste di Arcore c´è molto di Tiberio a Capri, o di Commodo, che si era fatto installare un “lupanare in Palatio”. C´è anche molto delle vite di quei potenti novecenteschi che sono stati i tycoon del cinema, e poi della televisione. Nei riti che vengono narrati (e che suscitano in molti ammirazione e consenso) c´è infatti tantissimo immaginario televisivo, e si direbbe che realizzino il sogno di uno spettatore che attraversa lo schermo ed entra nel mondo delle meraviglie. Proprio qui risiede la singolarità del fenomeno. Nella politica del bunga bunga, del cucù e dello sberleffo abbiamo a che fare con un uso politico del desiderio molto moderno e spregiudicato, e la categoria più efficace per capire ciò che avviene è quella che Adorno ha chiamato “desublimazione repressiva”. Tra il principe e il popolo si stabilisce un patto: il principe permette al popolo di fare tutto quello che vuole, in materia fiscale e sessuale, e il popolo gli conferisce un mandato incondizionato. Soprattutto, tra il popolo e il principe si innesca un meccanismo di rispecchiamento: il principe è davvero, profondamente, uno del popolo. Al polo opposto, separati, persecutori, ascetici e noiosi ci sono i magistrati, lo Stato, quel che resta della terzietà e della trascendenza del potere e del diritto, a cui il principe si rivolta per comodità pratiche, mentre il popolo (che avrebbe tutto l´interesse a godere dei diritti che ha invece di sperare nella lotteria dei privilegi) lo segue e lo sostiene per solidarietà antropologica.
Da tutto questo possono emergere tre insegnamenti. Il primo riguarda il nesso tra la bestia e il sovrano, proprio quello indagato da Jacques Derrida nei suoi ultimi seminari. Il sovrano fa sfoggio di vigoria e di vitalità, e nella versione italiana, diversa in questo dalla versione americana dell´epoca di Bush, non vanta la propria prestanza come capo militare, ma come seduttore. Tipicamente, nel corso di una manifestazione elettorale del marzo 2009 il sovrano ha fatto una specie di scongiuro ai versi dell´inno nazionale “siam pronti alla morte”, e il 2 giugno del 2010, alla parata militare della Festa della Repubblica, ha guardato in modo ostentatamente ammirativo una crocerossina che sfilava. La dignità del potere legittimo si trasforma in un machismo primario, e a ben pensarci era già così con Mussolini, che però ha commesso l´errore fatale di portare in guerra un popolo che da lui aveva accettato tutto, comprese le leggi razziali.
Il secondo riguarda la realizzazione delle utopie. Come il sapere assoluto si è realizzato in modo perverso nella società della comunicazione, così tutti gli elementi del postmoderno, dalla scomparsa dei fatti nelle interpretazioni alla ironia (barzellette comprese) in politica sino appunto al desiderio giunto al potere si sono realizzati nel populismo. Nella fattispecie, il populista italiano, nello scherzare sull´inno nazionale e nell´ammirare la crocerossina realizza in forma plastica il “make love, not war”, e dimostra i limiti di quello slogan, così come delle teorizzazioni che, da Marcuse a Deleuze, nel secolo scorso, avevano insistito sulla intrinseca valenza emancipativa del desiderio. Non è così semplice: il desiderio può certo essere liberazione, ma, altrettanto bene, dominio e prepotenza.
E qui veniamo al terzo insegnamento. Il mondo del populismo, soprattutto nella sua versione italiana che appare all´estero (più che in Italia, dove con il tempo sono prevalse l´assuefazione e l´acquiescenza) come essenzialmente comica e oscena, è un mondo che rischia di non essere preso sul serio. Invece ha ragioni profonde, che sanno coniugare l´arcaico e il modernissimo, e che spiegano la lunga durata del fenomeno. In particolare, il populismo italiano ha messo in scena un reality dove tutti sono uguali e intercambiabili (politici, persone di spettacolo e “pubblico a casa”) perché nessuno conta niente, e chi non è d´accordo è accusato di supponenza e frigidità intellettuale.
Ma scandalizzarsi per il lupanare in Palatio non è togliere spazio alla vita e al desiderio, bensì riconoscere l´inaccettabilità di un sistema di sopraffazione. Perché sarà anche vero che dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori, ma questa è una legge di natura, vige nelle serre e negli allevamenti, non nei parlamenti. Se però vogliamo tornare dall´etologia alla politica, e dalla natura alla storia, credo che questa esuberanza di vita ci riservi non solo tristi insegnamenti, ma anche una speranza. Questa: come l´aver sperimentato la guerra sembra aver definitivamente vaccinato gli italiani dalla retorica della bella morte, che non ha niente a che fare con il coraggio, così quello che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe vaccinarci dalla retorica della bella vita, che non ha niente a che fare con il desiderio, ma molto con l´impotenza e l´illusione.

venerdì 4 marzo 2011

Napolitano: "Per la spesa pubblica no ai tagli con il machete"

 da sito www.repubblica.it del 4.3.2011

Napolitano: "Per la spesa pubblica no ai tagli con il machete"Non si possono mettere tutte sullo stesso piano. Bisogna aiutare i giovani che si dedicano alla ricerca scientifica, sarebbe un delitto non farlo". Il presidente ha aggiunto che non devono essere sacrificati alla leggera "gli investimenti sul nostro futuro"


GINEVRA - "Anche in questa fase di tagli della spesa pubblica, di rigore in seguito all'accumulo di un grande stock di debito pubblico, ritengo che i tagli della spesa pubblica non possano essere fatti con il machete. Non si possono mettere sullo stesso piano tutte le spese", ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al termine della visita ai laboratori del CERN di Ginevra dove ha sollecitato anche un maggiore contributo del settore privato alla ricerca.

 Questo deve valere anche in una fase di "restringimento della spesa pubblica dovuto ad un debito che deve essere alleggerito in tempi non troppo lunghi". Oltre ciò, ha aggiunto Napolitano, non deve "venire mai meno l'impegno del settore privato". E ad ogni modo "non possono essere sacrificati alla leggera, in modo schematico, quelli che sono investimenti sul nostro futuro".

"Non so se Galileo fosse in grado di garantire l'immediata ricaduta delle sue scoperte", ha aggiunto Napolitano, ma "pochi sono i giovani ad essere così motivati come quelli che si dedicano alla ricerca scientifica", e non aiutarli "sarebbe un delitto. Dobbiamo pensare che è in gioco il ruolo dell'Italia nel mondo in una fase in cui rischia di declinare anche il ruolo mondiale dell'Europa di fronte all'avanzata nel campo della ricerca di Paesi, come quelli asiatici, da secoli ai margini dello sviluppo. Se l'Europa non vuole essere condannata a giocare un ruolo minore, il nostro patrimonio scientifico va accresciuto
e questo dipende da noi".

Nella comunità scientifica italiana che ruota attorno ai lavoratori di Ginevra (1.500 ricercatori su 6.000) ha fatto sensazione e desta preoccupazione la scelta del nostro Paese di ridurre nella legge Finanziaria gli stanziamenti per la ricerca e quindi anche il contributo nazionale al CERN, che è un progetto condiviso da 20 Paesi.

"Come sapete - ha detto Napolitano - io sono un presidente non esecutivo ma credo che saranno condivise da altri alcune ragioni fondamentali di sviluppo della comunità italiana che si riflettono nell'investimento per la ricerca. C'è una nostra forte ragione di sostenere il CERN e sono convinto che questo impegno non verrà meno perchè occorre uno sguardo un pò più lungo e lungimirante".

"Sono d'accordo con il richiamo espresso dal presidente della Repubblica: non si possono tagliare i fondi alla Ricerca, perchè è proprio dalla Ricerca che può venire il benessere economico". Così l'astrofisica Margherita Hack commenta le parole del Capo dello Stato. "E' però fondamentale, come ha rilevato Napolitano - ha aggiunto Hack - che vi sia un maggiore contributo da parte del privato: infatti, in Italia oggi si spende in Ricerca l'1% del Pil, di cui lo 0,6% viene dal pubblico e solo lo 0,4% dalle aziende". Ciò vuol dire, ha proseguito l'astrofisica, "che le aziende italiane fanno pochissima Ricerca mentre dovrebbero investire di più in tale settore, a partire dalla Fiat".

Messina, l'ateneo attiva il portale riforma Gelmini

da sito www.siciliatoday.net del 4.3.2011
L'Ateneo peloritano ha attivato un portale “http://riforma.unime.it” . Il portale è articolato in vari link che comprende documenti, articoli di stampa, fotografie e tutto il materiale che serve da supporto per tutti i lavori riguardanti l’attività della Commissione per la Revisione dello Statuto prevista dalla Legge Gelmini.

Una parte rilevante del portale è dedicata alla Partecipazione Democratica che consente alla Comunità accademica di offrire, con modalità semplici, contributi individuali o di gruppo dei quali la Commissione dovrà tenere conto nel corso dei suoi lavori.

giovedì 3 marzo 2011

Riforma Gelmini, da Bologna un referendum sulla legge

 da www.repubblica.it del 3.3.2011


"Un quesito semplice, che ne chiederà l'abrogazione", lanciato dai "Docenti preoccupati". Ad aprile, in occasione di un convegno, partirà la raccolta firme: per convalidarle "coinvolgeremo i partiti.
L'iniziativa parte dai docenti, ma nel "comitato promotore" saranno coinvolti anche precari del mondo dell'università e studenti. Parte da Bologna, con i "Docenti preoccupati", la proposta di un referendum per l'abolizione della riforma Gelmini. ''In un primo momento - ha detto il docente Maurizio Matteuzzi - pensavamo a una batteria di quesiti che coinvolgesse anche il mondo della scuola e quello dei teatri. Ma i problemi di quei settori vengono dalla finanziaria, legge che non può essere abrogata. Per questo abbiamo deciso di andare avanti da soli. Il quesito sarà molto semplice e chiederà l'abrogazione di tutta la legge''.

I "Docenti preoccupati" (un gruppo che raccoglie oltre 200 tra associati e ordinari dell'Alma Mater) annunciano che il comitato sarà composto da docenti, precari e studenti e avrà come numi tutelari tre personalità del mondo della cultura ''di assoluto prestigio: abbiamo già dei nomi ma non possiamo ancora diffonderli''.

Un ostacolo sulla strada del referendum non è soltanto quello della raccolta delle 500mila firme ("Inizieremo ad aprile in occasione di un convegno che porterà a Bologna i rappresentanti di 30 atenei"), ma anche la loro convalida. "Per questo - spiega Matteuzzi - pensiamo di coinvolgere quelle forze politiche che sono state contrarie alla riforma''.