da sito www.iltempo.it - di Nadia Pietrafitta 18/07/2010
La «sua» riforma dell'università è pronta per andare al Senato il prossimo 22 luglio. Intanto Mariastella Gelmini ha già inviato una lettera ai rettori di tutti gli atenei italiani. Il suo messaggio è chiaro: i professori «senior» sono troppi. Per il ministro dell'Istruzione qualcosa va cambiato: «La cosa migliore sarebbe abbassare l'età pensionabile a 65 anni, e non escludo che il governo possa presentare un emendamento in tal senso alla riforma dell'università», spiega in un'intervista al Corriere della Sera. La Gelmini non ammette repliche: «Dopo i 70 anni si va a casa senza se e senza ma. Altrimenti si penalizzano i giovani».
Ai rettori chiede almeno «di rispettare la legge, visto che non tutti lo fanno. Sono sorpresa e indignata - ammette - dal fatto che alcuni di loro cerchino di mantenere in servizio i docenti anche dopo i 70 anni». Il ministro fa riferimento a quanto accade alla Sapienza di Roma, dove i cosiddetti professori «senior» possono restare in servizio fino a 75 anni. È troppo: «La nostra legge è gia molto generosa: in Europa solo noi arriviamo a 70. Tutti gli altri si fermano a 65, la Francia a 67». L'età media dei professori ordinari in Italia reggiunge i 60 anni: «Troppi - dice sicuro il ministro - Abbiamo bisogno di un ricambio generazionale e la crisi economica ci obbliga a scegliere». La scelta - secondo la Gelmini - è tra chi ha avuto già tanto e i giovani precari. Gli stipendi dei professori «senior» sono anche i più elevati: tagliarli significherebbe risparmiare. «Le risorse recuperate potrebbero essere utilizzate per fare spazio ai giovani ricercatori», spiega.
Poi sull'emendamento che alzava di tre anni l'età pensionabile dei professori, che stava per essere inserito nella manovra, non ha paura di dire la sua e tira acqua al suo mulino: «Non è passato e ho fatto di tutto per evitarlo. Sarebbe stato un grave errore. Non possiamo riempirci la bocca di fuga dei cervelli o di precarizzazione e poi, quando ci sono due soldi, usarli per mandare in pensione più tardi chi ha già avuto tanto. Dovendo scegliere è giusto aiutare la parte debole, i giovani». Le parole del ministro dell'Istruzione suonano come musica per le orecchie di Giorgia Meloni, ministro della Gioventù: «Ha ragione il ministro Gelmini: abbiamo urgente bisogno di un ricambio generazionale e la crisi economica ci costringe a scegliere come destinare le poche risorse che abbiamo a disposizione. Per questo - aggiunge - sostengo l'ipotesi che il governo presenti un emendamento alla riforma dell'università per abbassare l'età pensionabile dei professori universitari. Mandarli in pensione a 65 anni permetterebbe finalmente di liberare spazio e risorse da destinare ai più giovani».
Favorevole alla proposta del ministro dell'Istruzione anche l'associazione «Studenti per le Libertà», vicina ai «Giovani del Pdl». Non volendo, però, che il patrimonio rappresentato dalla «cultura, la preparazione e la passione di molti docenti in età pensionabile» vada perduto, questi giovani lanciano una proposta: «La costituzione, in ogni ateneo, di una associazione o fondazione di docenti in pensione, in cui queste personalità che tanto hanno dato all'università, potranno continuare a dedicarsi agli studenti, attraverso attività di tutorato e assistenza alla didattica, piuttosto carenti nelle strutture del nostro Paese». La Gelmini raccoglie anche il plauso sarcastico del Pd: ««Il fatto che, seppure con qualche mese di ritardo, il ministro riprenda la nostra proposta sul ricambio generazionale nell'università che il governo aveva bocciato in commissione al Senato, è positivo», afferma Marco Meloni, responsabile Università e ricerca della segreteria nazionale del Pd.
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Ma uno studio de "le scienze" del 2006 già lo aveva scoperto!
da sito repubblica.it
Una ricerca, in edicola domani con il mensile "Le Scienze", mette in luce un forte squilibrio nel mondo accademico italiano
Università, troppi prof anziani: in arrivo uno "tsunami demografico"
Lo studio: "Così il nostro sistema è privato di professori e ricercatori nell'età della loro maggiore creatività scientifica"
ROMA - "Uno tsunami demografico si sta propagando nell'università italiana". È un grido d'allarme quello lanciato da Stefano Zapperi (ricercatore del CNR - Istituto nazionale di fisica della materia) e Francesco Sylos Labini (del Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi di Roma) nelle pagine del mensile "Le Scienze" in edicola domani. Nel mondo accademico italiano, secondo la ricerca, si starebbero per abbattere le conseguenze del forte squilibrio demografico tra i docenti in ruolo.
Spesso si parla della difficoltà dei giovani a inserirsi nel mondo accademico e della ricerca, del problema dei precari, della fuga dei cervelli. La causa di questi fenomeni potrebbe essere proprio il progressivo invecchiamento della popolazione docente nei nostri atenei e la scarsa attenzione, degli stessi e del Ministero, verso il reclutamento, che spesso avviene per via legislativa. A questo bisogna, inoltre, aggiungere anche i lunghi periodi in cui le assunzioni sono ridotte al minimo. E così, una delle conseguenze di questa errata politica è che, dati alla mano, alcune generazioni della docenza universitaria sono praticamente inesistenti, a vantaggio di altre (la struttura anagrafica è infatti caratterizzata da un forte squlibrio tra il personale anziano e quello giovane).
L'analisi statistica condotta all'interno dell'indagine dimostra come la politica delle assunzioni abbia portato a una struttura che non ha eguali negli altri paesi. "In particolare - spiegano i ricercatori - il numero dei giovani nel corpo docente è estremamente basso, e tende a diminuire, mentre quello degli anziani è in vertiginoso aumento. L'università italiana è quindi quasi priva di professori e ricercatori nell'età della loro maggiore creatività scientifica, un fenomeno che favorisce, di fatto, la fuga dei cervelli". Queste politiche, inoltre, hanno favorito l'accumularsi di un gran numero di ricercatori precari, che spesso, malgrado l'eccellenza scientifica ottenuta anche a livello internazioanle, lavorano in condizioni di scarsa indipendenza e privi di responsabilità.
I dati. L'Italia, secondo una recente indagine del Miur, è uno dei paesi con il più alto numero di docenti ultracinquantenni (42%), simile solo a quello di Giappone e Francia. Se andiamo a confrontare il numero di professori ultrasessantenni, nel nostro Paese sono il 22,5% contro il 13,3% della Francia e l'8% del Regno Unito. Al contrario, i giovani docenti (sotto i 35 anni) da noi sono solo il 4,6% contro il 16% del Regno Unito e l'11,6% della Francia.
Il dato forse più allarmante è quello che riguarda il numero sproporzionato di professori di età compresa tra i 55 e i 60 anni rispetto alle classi di età adiacenti. I ricercatori puntano il dito contro la legge 382/1980, che "ha promosso ope legis a ricercatore e professore associato una vasta classe di figure orbitanti nel mondo universitario, dai borsisti ai tecnici laureati, passando per i curatori degli orti botanici". La domanda, a questo punto, nasce spontanea: cosa succederà tra quindici o venti anni, quando tutti i professori raggiungeranno l'età pensionabile? Anche la risposta, in questo caso, è quasi ovvia: se non si sarà invertita la tendenza per tempo, bisognerà assumere in massa nuovo personale docente. E questo porterà di nuovo, come un circolo vizioso, al riverificarsi del problema entro qualche decina di anni.
Guardando, inoltre, la distribuzione anagrafica dei nuovi assunti, si può notare che l'incremento è concentrato nella fascia di età che va tra i 35 e i 45 anni: questo significa che le assunzioni arrivano anche dopo un lungo periodo di precariato (a questo si deve aggiungere che il dottorato di ricerca si ottiene in genere prima dei trent'anni).
Spesso si parla della difficoltà dei giovani a inserirsi nel mondo accademico e della ricerca, del problema dei precari, della fuga dei cervelli. La causa di questi fenomeni potrebbe essere proprio il progressivo invecchiamento della popolazione docente nei nostri atenei e la scarsa attenzione, degli stessi e del Ministero, verso il reclutamento, che spesso avviene per via legislativa. A questo bisogna, inoltre, aggiungere anche i lunghi periodi in cui le assunzioni sono ridotte al minimo. E così, una delle conseguenze di questa errata politica è che, dati alla mano, alcune generazioni della docenza universitaria sono praticamente inesistenti, a vantaggio di altre (la struttura anagrafica è infatti caratterizzata da un forte squlibrio tra il personale anziano e quello giovane).
L'analisi statistica condotta all'interno dell'indagine dimostra come la politica delle assunzioni abbia portato a una struttura che non ha eguali negli altri paesi. "In particolare - spiegano i ricercatori - il numero dei giovani nel corpo docente è estremamente basso, e tende a diminuire, mentre quello degli anziani è in vertiginoso aumento. L'università italiana è quindi quasi priva di professori e ricercatori nell'età della loro maggiore creatività scientifica, un fenomeno che favorisce, di fatto, la fuga dei cervelli". Queste politiche, inoltre, hanno favorito l'accumularsi di un gran numero di ricercatori precari, che spesso, malgrado l'eccellenza scientifica ottenuta anche a livello internazioanle, lavorano in condizioni di scarsa indipendenza e privi di responsabilità.
I dati. L'Italia, secondo una recente indagine del Miur, è uno dei paesi con il più alto numero di docenti ultracinquantenni (42%), simile solo a quello di Giappone e Francia. Se andiamo a confrontare il numero di professori ultrasessantenni, nel nostro Paese sono il 22,5% contro il 13,3% della Francia e l'8% del Regno Unito. Al contrario, i giovani docenti (sotto i 35 anni) da noi sono solo il 4,6% contro il 16% del Regno Unito e l'11,6% della Francia.
Il dato forse più allarmante è quello che riguarda il numero sproporzionato di professori di età compresa tra i 55 e i 60 anni rispetto alle classi di età adiacenti. I ricercatori puntano il dito contro la legge 382/1980, che "ha promosso ope legis a ricercatore e professore associato una vasta classe di figure orbitanti nel mondo universitario, dai borsisti ai tecnici laureati, passando per i curatori degli orti botanici". La domanda, a questo punto, nasce spontanea: cosa succederà tra quindici o venti anni, quando tutti i professori raggiungeranno l'età pensionabile? Anche la risposta, in questo caso, è quasi ovvia: se non si sarà invertita la tendenza per tempo, bisognerà assumere in massa nuovo personale docente. E questo porterà di nuovo, come un circolo vizioso, al riverificarsi del problema entro qualche decina di anni.
Guardando, inoltre, la distribuzione anagrafica dei nuovi assunti, si può notare che l'incremento è concentrato nella fascia di età che va tra i 35 e i 45 anni: questo significa che le assunzioni arrivano anche dopo un lungo periodo di precariato (a questo si deve aggiungere che il dottorato di ricerca si ottiene in genere prima dei trent'anni).
Il numero de "Le scienze" di febbraio
Il pensionamento. Un'altra delle cause di questo grave squilibrio, si legge su "Le Scienze", è che "la distribuzione di età dei professori universitari è evidentemente legata alla legislazione che ne determina il pensionamento". In Italia, infatti, i docenti universitari vanno in pensione più tardi dei "normali" lavoratori (che si "ritirano" a 65 anni): l'età media della pensione per i professori si attesta infatti sui 70-75 anni.
I mali della nostra università. Lo studio rivela la causa di molti dei mali che affliggono i nostri atenei, tra cui le difficoltà incontrate dai giovani a entrare nel sistema, quindi la precarizzazione del lavoro per periodi eccessivamente lunghi, il numero sproporzionato di docenti anziani e le anomalie prodotte dalle assunzioni ope legis. "A nostro avviso - concludono Zapperi e Sylos Labini - serve un'inversione di rotta, con un ringiovanimento del personale accademico. Questo processo dovrebbe cominciare ora e non fra quindici anni, quando ai problemi creati dal pensionamento collettivo di un gran numero di docenti (lo tsunami) si potrà rispondere solo con una nuova onda".
(30 gennaio 2006)
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