ROMA. Dopo le accuse del Rettore («fannulloni») sul web il clima si fa rovente. Ecco alcune risposte dai blog.
Continua a suscitare polemiche la dichiarazione del rettore della Sapienza Frati che accusa i ricercatori del suo ateneo di essere dei fannulloni improduttivi. Malgrado le critiche dei ricercatori di tutt’Italia e di quelli fuggiti all’estero, il rettore continua a buttar legna sul fuoco; ieri ha ribadito la sua opinione e la volontà di iniziare a tagliare “i rami secchi” del suo ateneo. A questo punto abbiamo voluto dare la parola ai ricercatori stessi, quelli accusati di improduttività, e l’abbiamo fatto attingendo dai tanti blog dove i ricercatori italiani si difendono in modo libero e senza “filtri” giornalistici
Iniziamo dal dato: il 10% dei ricercatori della Sapienza sono improduttivi. Vincenzo a proposito scrive: «Direi che la situazione è ottima: solo il 10%, sicuramente meno che in altre categorie […] Il problema è che continuiamo a concentrarci su quel 10%, mentre io mi chiedo cosa dovrei fare, essendo nell’altra porzione. Io faccio circa 180 ore di didattica all’anno (non ho figli); il mio collega G. di Nottingham la settimana scorsa si è lamentato con me che, appena tornato dal sabbatico, si è ritrovato un secondo corso, per un totale di 50 ore annue. (Ah, a proposito: quando non ci sono corsi non hanno obbligo di presenza in dipartimento). Il mio collega D. di Dublino 5 anni fa aveva un budget di circa 100.000 euro all’anno sicuri, più i fondi che venivano da progetti o dalle aziende (altro nostro punto dolente), con i quali pagava 6 dottorandi di ricerca “tutti suoi” (il doppio del numero ministeriale complessivo per il mio intero dipartimento da una sessantina di strutturati). è questo che gli invidio (ho idee ferme che necessitano di fondi e teste ad aiutarmi), e solo secondariamente uno stipendio due volte e mezzo il mio. E non pubblica più di me».
È questo è un punto delicato, le pubblicazioni. Il rettore Frati indica come parametro oggettivo della produttività di un ricercatore il numero di pubblicazioni che fa. Ma Osvaldo ci spiega che le pubblicazioni, anche se apparentemente parametro di valutazione oggettivo, non sempre possono essere prese come unico criterio: «Non si può dare del fannullone ad un ricercatore solo perché non pubblica, molto spesso i ricercatori hanno sulle spalle il peso della didattica che è bellamente tralasciata dalle decine di professoroni che hanno altri impieghi (parlamentari, ministri, liberi professionisti), per non parlare delle interminabili sessioni d’esami. Tutti i ricercatori in Italia devono ritagliarsi il tempo per fare ciò per cui lo Stato dovrebbe pagarli, poiché per la gran parte della loro giornata sono costretti a fare didattica, a causa della carenza dei docenti. Quindi fanno il lavoro di professori universitari, che non dovrebbero fare, per 1000 euro al mese»
Anche un altro ricercatore anonimo, che ha da poco firmato il contratto, ci conferma le parole di Osvaldo: «Il ricercatore dovrebbe fare ricerca, è solo questo che prevede il suo contratto, ma, invece, il ricercatore fa didattica - al posto dei docenti di ruolo - a tempo pieno, e la ricerca la dovrebbe fare nel suo tempo libero».
Ma se per risolvere il problema della ricerca bastasse soltanto pubblicare, i ricercatori italiani sarebbero più che soddisfatti. Continua infatti Osvaldo: «Nella riforma, si parla di un criterio minimale di 2 pubblicazioni in 5 anni. Io ci arrivo in scioltezza, anzi, potrei tirare il fiato, tanto ormai niente serve a fare carriera o a ricevere fondi, perché già ora sono pochi e tra un po’ saranno anche meno. Cosa mi date perché continui a lavorare come già faccio? è questo il problema. Licenziate pure anche il 20-30% dei ricercatori: quel che avanza sono spiccioli rispetto a ciò di cui dispongono i ricercatori negli altri paesi».
Iniziamo dal dato: il 10% dei ricercatori della Sapienza sono improduttivi. Vincenzo a proposito scrive: «Direi che la situazione è ottima: solo il 10%, sicuramente meno che in altre categorie […] Il problema è che continuiamo a concentrarci su quel 10%, mentre io mi chiedo cosa dovrei fare, essendo nell’altra porzione. Io faccio circa 180 ore di didattica all’anno (non ho figli); il mio collega G. di Nottingham la settimana scorsa si è lamentato con me che, appena tornato dal sabbatico, si è ritrovato un secondo corso, per un totale di 50 ore annue. (Ah, a proposito: quando non ci sono corsi non hanno obbligo di presenza in dipartimento). Il mio collega D. di Dublino 5 anni fa aveva un budget di circa 100.000 euro all’anno sicuri, più i fondi che venivano da progetti o dalle aziende (altro nostro punto dolente), con i quali pagava 6 dottorandi di ricerca “tutti suoi” (il doppio del numero ministeriale complessivo per il mio intero dipartimento da una sessantina di strutturati). è questo che gli invidio (ho idee ferme che necessitano di fondi e teste ad aiutarmi), e solo secondariamente uno stipendio due volte e mezzo il mio. E non pubblica più di me».
È questo è un punto delicato, le pubblicazioni. Il rettore Frati indica come parametro oggettivo della produttività di un ricercatore il numero di pubblicazioni che fa. Ma Osvaldo ci spiega che le pubblicazioni, anche se apparentemente parametro di valutazione oggettivo, non sempre possono essere prese come unico criterio: «Non si può dare del fannullone ad un ricercatore solo perché non pubblica, molto spesso i ricercatori hanno sulle spalle il peso della didattica che è bellamente tralasciata dalle decine di professoroni che hanno altri impieghi (parlamentari, ministri, liberi professionisti), per non parlare delle interminabili sessioni d’esami. Tutti i ricercatori in Italia devono ritagliarsi il tempo per fare ciò per cui lo Stato dovrebbe pagarli, poiché per la gran parte della loro giornata sono costretti a fare didattica, a causa della carenza dei docenti. Quindi fanno il lavoro di professori universitari, che non dovrebbero fare, per 1000 euro al mese»
Anche un altro ricercatore anonimo, che ha da poco firmato il contratto, ci conferma le parole di Osvaldo: «Il ricercatore dovrebbe fare ricerca, è solo questo che prevede il suo contratto, ma, invece, il ricercatore fa didattica - al posto dei docenti di ruolo - a tempo pieno, e la ricerca la dovrebbe fare nel suo tempo libero».
Ma se per risolvere il problema della ricerca bastasse soltanto pubblicare, i ricercatori italiani sarebbero più che soddisfatti. Continua infatti Osvaldo: «Nella riforma, si parla di un criterio minimale di 2 pubblicazioni in 5 anni. Io ci arrivo in scioltezza, anzi, potrei tirare il fiato, tanto ormai niente serve a fare carriera o a ricevere fondi, perché già ora sono pochi e tra un po’ saranno anche meno. Cosa mi date perché continui a lavorare come già faccio? è questo il problema. Licenziate pure anche il 20-30% dei ricercatori: quel che avanza sono spiccioli rispetto a ciò di cui dispongono i ricercatori negli altri paesi».
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