domenica 6 febbraio 2011

Università: il gioco delle illusioni

 di Lorenzo Castellani - da www.ildemocratico.com del 6.2.2011

Calano i diplomati che decidono di continuare a studiare. Siamo passati dal 74,5% del 2003 al 65% di questo ultimo anno. Di conseguenza calano anche i laureati, ben 13% in meno in otto anni. Espressione di un Paese fermo e che non cresce da due decenni. Una deriva alla quale nessun governo ha mai messo mano. Cosa c’è all’origine di questi dati negativi? Tra le cause recenti rientra ovviamente la crisi economica, ma i vizi tipici dell’università italiana si tramandano dal 1968. Tasso di abbandono vertiginoso: si laurea solo il 32% degli iscritti il primo anno. Lo spreco di risorse non è difficile immaginarlo. I giovani italiani si laureano in ritardo, l’età media è 27 anni ed è decisamente troppo per tenere il passo con la concorrenza europea. Sono dati impressionanti che ancora una volta dimostrano inefficienze e degrado del sistema universitario italiano. Un sistema basato sulle illusioni. In primo luogo di promozione sociale: i giovani e le loro famiglie credono nel “pezzo di carta” come diritto per accedere ad un posto ben remunerato. Le università italiane si sono così trasformate in un diplomificio dove tutti si iscrivono, pochi finiscono e pochissimi alla fine sono forniti di una preparazione eccellente. L’università è stata concepita come un ente assistenziale dove parcheggiare giovani per lunghi anni fino a farli diventare non più giovani e per di più inoccupabili. Le tasse sono basse e questo facilita le lunghe permanenze e secondo i dati Ocse l’Italia è il paese che meno investe in termini di borse di studio. Di conseguenza abbiamo pochi laureati, tanti bivaccatori universitari uniti a scarsa meritocrazia e competitività. Sarebbe quindi auspicabile avere tasse più elevate ed un adeguato sistema di borse di studio, premi, prestiti d’onore ecc. Il rendimento migliora quando i sacrifici economici imposti alla famiglia del giovane sono maggiori, come dimostra uno studio dell’università Bocconi. Non è un caso che la maggior parte degli studenti diplomati con voto superiore al 90 si indirizza verso le private come Luiss, Cattolica e Bocconi. Quando la laurea non è solo pezzo di carta, ma preparazione, sacrificio e possibilità effettiva di inserirsi nel mondo del lavoro il sistema diventa competitivo e meritocratico. Un’altra illusione da sfatare è relativa alla recente riforma Gelmini. Si è sbandierato che i baroni universitari sarebbero stati messi alla sbarra mentre c’è poco da stare tranquilli, sulla fine del sistema baronale. Che, ancora una volta, semplicemente, sopravviverà a se stesso. Machiavellico? No, solo gattopardesco. Andiamo a vedere quello che realmente accadrà (o non accadrà) dopo l’entrata in vigore della legge. Cominciamo dal comma 1, lettera b, infine, dell’art. 18, che statuisce come alla chiamata a professore ordinario e associato “non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo”. Vuoi vedere allora che un ricercatore “figlio di” (nato e cresciuto nel Dipartimento o nella Facoltà del parente o dell’affine: in quanto fino al ruolo di ricercatore, non sembra vi siano, nella legge, preclusioni di sorta) ad es. della Sapienza verrà chiamato a Tor Vergata (dove c’è il sodale del parente o dell’affine, a sua volta dotato, ovviamente, di merce di scambio: ovvero un figlio ricercatore da chiamare alla Sapienza)? Vecchia storia, questa degli ‘incroci’ tra i figli di professori . Cambia solo che non avverrà più all’interno dello stessa Facoltà bensì, nella sua versione aggiornata, fra Atenei diversi e in teoria, ora, anche tra stesse materie.
Arriviamo ora al nocciolo della questione: il meccanismo di reclutamento dei professori associati e ordinari, che è stato pensato, dal legislatore, come diviso in due fasi, una su base nazionale (cfr. art. 16 del Ddl) e una su base locale (cfr. art. 18 del Ddl).
Risalta subito come sia estremamente macchinosa la composizione delle varie commissioni nazionali necessarie (una per ogni settore concorsuale, che resta in carica per due anni).Tali commissioni, ammesso che riescano a riunirsi ogni anno dovrebbero garantire una misura minima di imparzialità (quindi è probabile che l’abilitazione nazionale la si prenda tutti, o quasi: essendo i ricercatori italiani, mediamente, tutti piuttosto meritevoli).
Tuttavia, il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale di durata quadriennale non costituisce, infatti titolo di idoneità, né da alcun diritto di immissione nel ruolo dei professori, associati o ordinari che siano (cfr. comma 4 dell’art 16 del Ddl). Per ottenere quest’ultima, infatti, è prevista una procedura, ulteriore, di chiamata (e veniamo così all’art. 18 del Ddl). Anche qui è evidente, e risalta subito, come i meriti del singolo andranno ad impattare contro il localismo e il potere degli eterni baroni, cui è infatti demandata la parola finale. I criteri generali dettati nell’art. 18 citato, sono: l’ulteriore valutazione delle pubblicazioni scientifiche, del curriculum e dell’attività didattica degli studiosi già in possesso dell’abilitazione nazionale da parte di non si capisce bene chi (questo dettaglio è infatti rimesso al regolamento locale); con successiva formulazione da parte del Dipartimento di una proposta di chiamata da mettere ai voti, e successiva approvazione della stessa con delibera del consiglio di amministrazione.
Insomma l’influenza dei grandi cattedratici nei Consigli di Facoltà sarà più o meno la seguente: il nome del candidato alla chiamata verrà presumibilmente sponsorizzato, presso il professore ordinario o i più professori ordinari) che contano nel Dipartimento interessato, da un collega, anche di altro Ateneo, che tiene in particolare al candidato. A questo punto, il professore o i più professori in questione si accorderanno con gli altri colleghi professori di Dipartimento per ottenere la maggioranza necessaria per la chiamata. Il tutto a buon rendere. E’ chiaro allora che il rischio che l’università resti in mano ai baroni è ancora concreto e tutt’altro che escluso. Con buona pace di una nazione di giovani illusi.

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