lunedì 31 gennaio 2011

Deliberatamente



Università, la protesta dei ricercatori all'inaugurazione del nuovo anno

da www3.lastampa.it del 31.01.2011

Al rettore uno striscione con le 800 firme di docenti e ricercatori «Chiediamo l'elezione a suffragio universale della commissione  che stilerà il nuovo statuto»

elena masuelli (agb)
torino
Chiedono maggiore democrazia nelle scelte dell'ateneo, a cominciare dall'elezione per designare i membri della Commissione che dovrà riscrivere lo Statuto. Una scelta che l'Università di Trieste ha già fatto e sollecitata oggi dai Ricercatori torinesi che, fascia rosa al braccio, hanno srotolato nell'aula magna della Facoltà di Economia e Commercio, durante l'inaugurazione dell'anno accademico, un lungo striscione. Riporta le 800 firme raccolte fra i dipendenti, oltreché i ricercatori anche docenti, personale amministrativo e precari che chiedono l'elezione diretta, a suffragio universale, da parte di tutti coloro che lavorano e studiano nell'ateneo, dei componenti della Commissione che verrà istituita per stilare il nuovo statuto, come previsto dalla riforma Gelmini. «Lo statuto per l'università è come la costituzione per uno stato – scrivono – stabilisce regole di funzionamento condivise per i prossimi decenni. E' giusto che sia eletta con voto libero ed eguale, nel rispetto delle più elementari norme di democrazia».

Il rischio è quello che a scegliere siano trattative non trasparenti, frutto di rapporti di forza fra corporazioni e consorterie: la nuova legge prevede infatti che a redigere il documento sia un gruppo formato da dodici membri designati dal Senato accademico e dal Consiglio di amministrazione, sei ciascuno, da due rappresentanti degli studenti e dal Rettore, chiamato a presiedere la Commissione.

E sullo sfondo di questa protesta, cui si è aggiunta quella degli studenti del Collettivo universitario autonomo contro la riforma, proprio al Rettore, Ezio Pellizzetti, è toccato intervenire, cercando di evitare polemiche sulla legge Gelmini, puntualizzando però due lacune nel testo, presupposti utilizzati per propagandarlo, ma lasciati irrisolti: il premio alla meritocrazia e l'apertura per i giovani di spazi all'interno della carriera universitaria. Amarezza e disappunto per l'esclusione dal Consiglio di amministrazione di rappresentanti del personale tecnico e amministrativo.

«I decreti attuativi – ha auspicato Pellizzatti – potranno correggere alcune delle incongruenze e delle contraddizioni che il provvedimento contiene, per stessa ammissione dei suoi estensori. La legge è stata approvata e tocca a noi applicarla. Nessun gioco al massacro sull'Università pubblica: quella torinese in particolare, è attrezzata per la difficile sfida che l'avvenire ci attende».

La legge ad barones muove i primi passi

da www.ilfattoquotidiano.it del 31.01.2011
di Guido Mula*


La legge Gelmini (legge 240/2010), entrata in vigore sabato 29, mostra subito di essere costruita per conservare il potere dei “baroni”: basta guardare come i rettori stanno gestendo la questione delle commissioni che si devono occupare delle modifiche statutarie imposte dalla legge appena approvata. Un esempio è quello del rettore di Padova, cui si rivolgono oltre 400 persone per chiedere democrazia e condivisione nelle scelte, ma anche altrove non si scherza. C’è chi inorridisce all’idea di ricercatori nelle commissioni, c’è chi li considera privi di esperienza, chi ritiene che solo ai professori ordinari spetti tale ambito compito.

E’ chiaro che la legge 240/10, così come è stata imposta d’autorità, nello stesso modo è stata preparata, con gli ope legis nascosti (art. 2, comma 9) scritti per i rettori in carica che adesso non vedono l’ora di approfittarne. La democrazia e la compartecipazione alle scelte non fanno parte del modo di pensare del ministro e della maggior parte dei rettori in carica che ora, rinvigoriti dall’approvazione di una legge che piace quasi solo a loro negli atenei nei quali sono stati eletti, ora vogliono il potere di decidere sulla sorte degli altri, in piena indipendenza. La maggior parte dei rettori è infatti ad un’età (molto) vicina alla pensione, ma si arrogano il diritto di escludere dalla discussione coloro sui quali gli effetti della legge e della revisione degli statuti ricadranno: i ricercatori, i professori associati, il personale non docente, i precari. I rettori sono talmente abituati a gestire il potere in maniera autonoma che oggi sono colti di sorpresa dal fatto che qualcuno contesti loro questa autonomia, e se per caso si avvicinano alle posizioni di chi in questi mesi ha mantenuto viva la voce dell’università lo fanno quasi sempre perché costretti dagli eventi e dalla pressione esercitata su di loro da ricercatori, professori, personale non docente, precari e studenti.

Ministro Gelmini, in questi giorni lei passa il tempo a fare dichiarazioni a sostegno del presidente del Consiglio, ma non spende una parola per invitare i rettori e gli organi di governo attuali delle università a garantire nelle commissioni un’adeguata presenza delle voci di coloro che dovranno vivere ancora a lungo nelle università. Il suo silenzio mostra una volta di più quanto per lei le università siano solo i rettori, dimenticando che ci sono tutti gli altri, ignorando completamente le voci di proposta e dissenso, scaricando le critiche con vuoti slogan senza mai entrare nel merito o accettare un confronto vero.

On. Gelmini, guardi intorno a sé, guardi le persone delle quali si è presa la responsabilità accettando l’incarico di ministro dell’Università e della ricerca. I ricercatori, i professori associati, i precari e gli studenti sono coloro che staranno nelle università ben dopo i rettori attuali, ben dopo i professori ordinari attuali. La nostra voce è quella del futuro, siamo già maggioranza nelle università, abbiamo appena aumentato di quasi il 15% degli aventi diritto la percentuale di votanti tra i ricercatori nelle recentissime elezioni del Consiglio universitario nazionale. Ci ascolti e venga a discutere e a confrontarsi con noi, c’è ancora molta strada da fare prima che la legge che porta il suo nome possa diventare operativa e c’è ancora spazio per correggere, almeno in parte, il tiro.

*Rete29Aprile

domenica 30 gennaio 2011

E adesso si brancola nel buio !!!

dal blog ricercatoriprecari.blogspot.com


29 Gennaio 2011: entra in vigore la Legge 240/2010 (ovvero la famigerata Legge Gelmini):

Da oggi non è più possibile bandire posti RTI.
Da oggi non è più possibile bandire posti RTD fino ad emanazione dei nuovi regolamenti di ateneo.
Da oggi non è più possibile bandire assegni di ricerca fino ad emanazione del Decreto Attuativo sul compenso minimo e dei relativi regolamenti di ateneo.
Da oggi, forse, non è più possibile rinnovare vecchi assegni di ricerca in scadenza.
Da oggi l'università non può più avvalersi di co.co.co. e professionisti per progetti di ricerca.

Da oggi...si brancola nel buio...

Così va il mo'

dal sito facebook di diego cugia - jack folla del 30.1.2011

L’Italia ha un problema d’amore. Anzi, d’amo’. La parolina tronca, in gergo romanesco, viene usata e abusata anche da escort del nord. Così fan tutte. La Minetti chiama amo’ la Guerra e la Faggioli. E amo’ lo usa pure la fidanzata mulatta del “cochiere”, quello che guidava una carrozza di cocaina, intendo il cocchiere della Mini della Minetti, la “Minetti-Minor”. Fatemi giocare, grazie, sono uno di quelli nati ai tempi in cui escort era solo un modello della Ford. Quelli come me, d’altronde, nel sentirsi dare del “culo flaccido” dai propri amo’ si sarebbero sparati dalla vergogna in diretta telefonica con L’Infedele, mentre l’amo’ di tutte le mini-amo’ si preoccupa di far alzare dalla sedia il culo della Zanicchi, forse per empatia fra natiche di una certa età. Ricordo il primo videomessaggio (o videomassaggio?) alla Nazione del Nostro Amo’. Disse testualmente «L’Italia è il Paese che amo». L’ho risentito. Secondo me disse amo’.
Quello che sto cercando di spiegare è che quando l’amore diventa amo’ son guai. Se tratti il tuo paese come due vampirelle succhiaeuro si chiamano fra di loro, poi succede che un qualsiasi orco di Ponte di Legno voglia gettare il tricolore nel cesso. Anzi nel ce’, nulla a che vedere con il Che. E poi che con l’orco si alleino quelli che hanno la fiamma tricolore nel simbolo. E per l’amo’ della democrazia, ci si battezzi Partito dell’amo’, e si rimbambisca un Paese con le televisioni puntate. E si finisca -eccoci qua-  alla Dittatura degli Amo’. Un Paese in cui le ragazze sono senza lavoro ma una Maristella da duemila a botta può telefonare in Prefettura e dire: Amo’, mi manda il presidente del Consiglio…Si tratta, in sostanza, di un problema di valo’ e di crisi delle istituzio’. Le vampirelle si detestano fra di loro (per via della concorre’) eppure si chiamano amo’. Da qui a chiamare Preside’ Napolitano il passo è bre’.
Tutto questo, naturalmente, non ha la minima importanza. Siamo italiani e abbiamo votato il Grande Amo’ per i suoi soldi. Che facesse quel che vuole, leggi ad personam, prostituzione minorile, lo sceicco della Casbah Smeralda, ce ne importa un ca’. Ma prima o poi qualcuno si accorgerà che la stirpe degli Amo’ è sempre più ricca, e noi e i nostri ragazzini sempre più poveri. Quel giorno un grido di dolore si leverà di banca in banca, dalle Alpi a Capo Passero. E il Grande Amò finirà a testa in giù. Così va’ il mo’ nel Paese degli amo’.

Università dell'Aquila: bufera nell'edilizia

da www.ilcapoluogo.com del 29.1.2011

L'Aquila, 29 gen 2011 - Sembra non avere fine la polemica scaturita dal contratto di locazione dell'edificio ex Optimes, occupato nell'immediato post terremoto dalla facoltà di Ingegneria e Scienze motorie, è poi disdetto dal rettore di Orio. "Dopo la conferenza stampa di Del Vecchio al mattino, nel pomeriggio il rettore in Cda (e in Tv) lo smentisce e detta la nuova linea sul caro affitti. Inaccettabile la minaccia di trasferire le facoltà: ma a che titolo il Da parla di questioni accademiche? Prendiamo atto e informiamo gli organi di stampa che, incalzati dall’evidenza dei gravissimi fatti da noi segnalati, direttore amministrativo e rettore forniscono nello stesso giorno versioni contrastanti sulle scelte da adottare per uscire dalla palude del caro-affitti dell’ex-Optimes, in cui si sono cacciati e, purtroppo, hanno cacciato l’ateneo aquilano". Lo si legga in una nota dei consiglieri di amministrazione dell’università Pierluigi Beomonte Zobel, Brunello Oliva, Sergio Tiberti, che ricostruisce la vicenda:
1. "Del Vecchio stipula a luglio 2009 un accordo capestro con Gallucci per quasi 2 milioni di eurol’anno senza parere dell’Agenzia del Territorio, senza premurarsi di prevedere una clausola di tuteladell’Università, e senza la possibilità di poter garantire una gara sui lavori di ristrutturazionelautamente pagati al “proprietario” con denaro pubblico, e per i quali non esiste rendicontazione.Non era certo questo il mandato di Senato e Cda, che non conoscevano in anticipo il contenuto delcontratto.
2. A luglio 2010 il Consiglio di Stato stabilisce che il proprietario dello stabile è il Nucleo Industriale e non Gallucci. Ma il 7 gennaio 2011 Del Vecchio - non autorizzato da nessuna delibera del Cda -scrive ancora a Gallucci (perché ormai?) chiedendo un ribasso dell’affitto del 20% (perché non il 30o il 40%?), invocando il rischio di insolvenza dell’Ateneo. Dopo soli 3 giorni arriva il parere dell’Agenzia del Territorio in base al quale risulta che l’ateneo esborsa un canone tra il doppio e iltriplo del dovuto!
3. A questo punto l’ineffabile Del Vecchio si comporta non da conduttore, ma da locatore proprietario, chiedendo una verifica al rialzo della stima, cioè la premessa per pagare di più! Questo incredibile comportamento viene giustificato dal DA come una tutela verso l’università, paventando il rischioche il proprietario possa non essere disponibile a ribassare il canone e quindi vi sia il rischio che duefacoltà rimangano senza sede e debbano emigrare da L’Aquila! In pratica, Del Vecchio si permettedi configurare gli scenari dell’ateneo aquilano per coprire le sue dilettantistiche mancanze.
4. Contestualmente e dopo la nostra denuncia, il rettore, dopo aver fatto finta di disdire il contratto(scrivendo a Gallucci, che non è proprietario) annuncia la disdetta definitiva del contratto e annunciaaltresì di voler informare sindaco, prefetto e Regione della grave situazione determinatasi per la sededi Ingegneria, che rischierebbe di andare in altra città abruzzese. Ma chi avrebbe determinato questasituazione, se non l’incauta condotta della governance sull’ex-Optimes? Loro fanno, loro disfano.
5. Nel corso del Cda di ieri, ennesima variante. L’ateneo deve rivalersi per le somme esborsate ineccesso! Come se il contratto l’avesse firmato qualcun altro e non DA e Rettore! Qualcuno di noi fa notare che se anche si dovesse malauguratamente cercare una nuova sede, non occorre allontanarsi dall’Aquila, i cui nuclei industriali abbondano di strutture utilizzabili, per non dire che già nel 2009si poteva pensare di prendere per pochissimo le strutture del polo elettronico smobilitate. E il rettore dà atto in Cda che l’eventuale gara sarà estesa al solo territorio aquilano, dopo aver fatto diffonderein mattinata la notizia tendenziosa del rischio di perdere le Facoltà. Del Vecchio dice di non temere gli accertamenti eventuali della Corte dei Conti, parlando del piccolo miracolo degli iscritti. Ma cosa c’entrano le due cose, ammesso che il miracolo esista e non sia un artefattodovuto all’esenzione dalle tasse? Il punto è un altro. Può un ente pubblico, un’università per di più in seriedifficoltà finanziarie, permettersi il lusso di sborsare un eccesso di un milione di euro l’anno per un canoned’affitto? Evidentemente no. E’ questa la questione e, contrariamente a quanto asserito da Del Vecchio insultandoci, sappiamo di cosa parliamo".

sabato 29 gennaio 2011

Udu lancia campagna nazionale su decreti attuativi e regolamenti

 da sito www.diariodelweb.it del 29.1.2011

ROMA - Nel giorno di entrata in vigore della legge di riforma dell'università, gli studenti universitari tornano a contestare buona parte dei 29 articoli che componono il testo di legge n. 240/2010: secondo l'Unione degli Universitari il provvedimento colpisce "l'università pubblica, la democrazia e il futuro di tantissimi giovani ricercatori", soprattutto a seguito della "riforma della governance" che allargando il potere dei Cda d'ateneo e contemporaneamente il numero di loro componenti esterni "porterà un duro colpo alla loro autonomia".In vista della definizione dei circa 50 decreti attuativi e regolamenti della riforma, l'Udu ha oggi annunciato di voler lanciare una campagna nazionale in difesa della democrazia e della rappresentanza nelle università. Sono diversi i punti generali che l'Unione degli universitari chiederà di far imporre attraverso l'ennesima iniziativa in contrasto con la politica del Governo: dopo aver premesso che l'iter di riforma dovrà essere condiviso con "tutta la comunità accademica, senza chiusure e colpi di mano da parte dei rettori", l'Udu chiede che le Commissioni di riforma degli statuti siano composte in modo democratico e rappresentativo e che in tutti gli organismi sia rispettata la presenza della rappresentanza studentesca almeno al 25% e comunque non inferiore al minino fissato per Legge (15%).

La UIL sui possibili effetti della Legge 240/2010 sul PTA delle Università

 da IlMessaggero Unical del 29.1.2011

Dopo aver fatto una serie d’interventi e di documenti sia autonomamente, sia con il cosiddetto “tavolone della docenza”, vogliamo ora soffermarci sulle implicazioni del PERSONALE TECNICO AMMINISTRATIVO a seguito dell’emanazione della riforma gelmini.
Abbiano già stigmatizzato i danni che la riforma produrrà ai giovani per lo svilimento del Diritto allo Studio e per l’esaltazione del precariato quale nuovo accesso al lavoro universitario (vedi l’introduzione della nuova figura di ricercatore con contratto a tempo determinato), nonché le ingiustizie perpetrate nei confronti degli attuali ricercatori messi ad esaurimento.

Posto e ribadito tutto questo, notiamo che il PERSONALE TECNICO AMMINISTRATIVO non è da meno in quanto perdita di diritti e di certezze. Che l’intento della legge sia quello di estromettere il Personale Tecnico Amministrativo dalla partecipazione attiva negli atenei, fino a ridurlo ad un corpo estraneo mal tollerato, lo si evince chiaramente dalla riduzione numerica (ad esempio, un massimo di 11 componenti nei consigli d’amministrazione) e dalla composizione definita degli organismi di gestione.
Oltre agli studenti ed a membri esterni che sono espressamente citati, nei consigli d’amministrazione non è affatto codificata la presenza del Personale Tecnico Amministrativo (ma nemmeno esclusa). Riteniamo che non si possa confidare nei rettori (professori ordinari che potranno essere anch’essi esterni) per la salvaguardia della componente Tecnico-amministrativa in presenza anche delle prevedibili lotte egemoniche che si scateneranno.
L’estromissione dei rappresentanti del Personale Tecnico Amministrativo da tutti gli organismi collegiali e dall’elettorato attivo vanificano, in un sol colpo, tutte le conquiste conseguite per l’impegno e la determinazione dispiegati in anni ed anni.

Entro 6 mesi dall’entrata in vigore di questa legge (art.2), una rivoluzione organizzativa ricadrà pesantemente sui dipartimenti, il cui accorpamento e la nuova definizione implicano un riassetto che peserà direttamente sul Personale Tecnico Amministrativo con mobilità, ridistribuzione dei compiti e relative indennità.

Le stesse problematiche si verificheranno qualora si decidessero federazioni e fusioni di Atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa (art. 3) in cui si prevede la mobilità di tutto il Personale sia docente e ricercatore, sia Tecnico Amministrativo.

Nell’articolo 9 si parla di un fondo per la premialità, anche per il Personale Tecnico Amministrativo, ma solo in quanto procacciatore di commesse conto terzi e/o finanziamenti esterni.

Su tutto questo “caos” sorgono molteplici le domande:
Come sarà gestita la mobilità? Con quali criteri?– Le eventuali risorse premiali saranno materia di contrattazione? – Come sarà garantita trasparenza ed imparzialità?
In concerto con le altre Organizzazioni Sindacali, in tutte le Sedi universitarie ci si deve attivare affinché sia favorita la partecipazione del Personale Tecnico Amministrativo alle scelte gestionali dell’Ateneo.
Nello specifico, al fine di prevenire mosse inaspettate ed unilaterali delle amministrazioni, occorre agire per ottenere un tavolo di confronto a tutela del Personale affermando criteri omogenei e condivisibili che tengano conto anche delle esigenze personali dei Dipendenti.

Ricordiamo, infine, che all’art.1 della legge “le università che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca”, (le cosiddette virtuose) possono sperimentare modelli organizzativi e di funzionamento diversi da quelli indicati nella legge stessa. Quindi, gli atenei che funzionano non hanno alcun obbligo di modificare il loro assetto. La palla passa ai rettori che dovranno dimostrare da che parte stanno e se l’orgoglio per la loro istituzione virtuosa sarà inferiore al desiderio di arrogarsi il diritto di padre-padrone.

Aspettiamo l’emanazione dei decreti ministeriali applicativi, ma vigiliamo comunque, perché conoscendo l’arroganza delle amministrazioni universitarie non ci si aspetta nulla di buono, specialmente, appunto, nei confronti del Personale Tecnico Amministrativo.

Università di Catania - Coordinamento Unico d'Ateneo: MENO FRETTA E PIU' DEMOCRAZIA

 da sito www.step1.it del 29.1.2011
 
 
Il Coordinamento Unico d'Ateneo dice no alla proposta del rettore Recca di nominare in tempi stretti i commissari per la revisione dello Statuto dell’università di Catania. Lo fa con un documento in cui propone di estendere la consultazione a tutta la comunità accademica. Già designati i primi sei membri della “costituente”. Ma all’interno del Consiglio d’Amministrazione non è mancato il dissenso 
 
 
Nuova azione di protesta del Coordinamento Unico d’Ateneo dell’Università di Catania. Forte del successo delle 551 firme a una mozione critica nei confronti del ddl Gelmini raccolte nello scorso novembre tra professori e ricercatori strutturati, compresi presidi di facoltà e alcuni docenti emeriti, ben oltre un terzo del totale dei docenti di ruolo dell'Università di Catania, il “coordinamento unico” abbraccia ormai trasversalmente tutte le fasce della docenza ed è collegato sia ai precari della ricerca che agli studenti del “movimento”. Stavolta la mobilitazione riguarda l'imminente revisione dello Statuto d'Ateneo, dopo la recente approvazione in Parlamento del decreto Gelmini. Il “coordinamento unico” manifesta il proprio dissenso nei confronti della scelta del rettore Antonino Recca “di imporre un’accelerazione al processo costituente, facendo nominare la Commissione", e chiede “che si agisca in maniera più democratica nella composizione della Commissione, ascoltando i pareri di tutto il mondo universitario”.

Nel merito, il coordinamento propone un documento , presentato ieri alla facoltà di Farmacia nel corso di una conferenza stampa, con cui sottolinea l'esigenza di “una consultazione ampia e democratica di tutte le componenti, l'apertura di un dibattito inclusivo e trasparente sui nodi più critici del processo di elaborazione del nuovo statuto di Ateneo a partire dalla composizione della commissione che dovrà redigere il nuovo testo”. “Riteniamo – si legge sul documento - che si debba procedere, come detto, ad una elezione dei componenti su base democratica oppure, come fatto da altri Atenei, che si possa chiedere alle strutture, alle aree ed alle componenti del nostro ateneo di indicare una rosa di nomi tra cui scegliere la commissione stessa secondo forme paritarie di rappresentanza di tutte le componenti docenti e con la presenza irrinunciabile della componenti non docenti”.

Il testo chiarisce poi alcuni degli aspetti più importanti che dovranno riguardare la stesura della nuova “carta costituzionale” dell'Università di Catania: la “previsione di criteri chiari e trasparenti per la scelta dei componenti esterni del CDA” e per l'elezione del Rettore e degli organi dell’Ateneo. Inoltre, chiedono che il nuovo Statuto, preveda “forme di democrazia diretta su questioni di vitale importanza per l’ateneo”, “forme chiare di distribuzione delle risorse e di costruzione delle programmazioni di chiamata delle unità, secondo criteri trasparenti legati alla qualità della ricerca e della didattica” e “forme di monitoraggio dell’offerta didattica al fine di evitare – in seguito alle riduzioni venture di risorse – tagli di settori importanti”.

Intanto, nella riunione di ieri pomeriggio, 28 gennaio, il CdA ha approvato la proposta del rettore Recca, procedendo immediatamente alla nomina dei primi sei componenti della commissione per la revisione dello Statuto (Legge n. 240 del 30/12/2010, art. 2 comma 5). Si tratta di Andrea Bettetini, ordinario di Diritto ecclesiastico (facoltà di Giurisprudenza); Ida Nicotra, ordinario di Diritto costituzionale (facoltà di Economia); Francesco Nocera, ricercatore di Tecnica degli Impianti (facoltà di Architettura, sede di Siracusa); Riccardo Noto, associato di Medicina interna (facoltà di Medicina); Domenico Sciotto, ordinario di Chimica organica (facoltà di Scienze); Massimo Sturiale, ricercatore di Lingua inglese (facoltà di Lingue, sede di Ragusa). La designazione dei sei membri della commissione, però, non è avvenuta all'unanimità. Si sono infatti astenuti dal voto il prof. Giascomo Pignataro, ordinario di Scienza delle Finanze ed ex Presidente della Scuola Superiore e il prof. Salvatore Santo Signorelli, associato di Semeiotica presso la facoltà di Medicina.

I restanti sei componenti della commissione potrebbero essere eletti già all'inizio della prossima settimana. Il Magnifico ne ha infatti posto la designazione all'ordine del giorno di un'adunanza straordinaria del Senato accademico, convocata per lunedì 31 gennaio. Sulla base dell'imminente completamento della commissione, i ricercatori, nel corso della conferenza stampa, hanno rivolto un appello ai Presidi di Facoltà, in qualità di componenti del Senato, a non dare corso, nella riunione del 31, alla nomina dei commissari, “dando avvio ad una fase di consultazione democratica da cui scaturiscano i componenti della commissione insieme ai contenuti vincolanti che ispirino la stessa nella redazione della carta costituente del nostro Ateneo”.

Il Coordinamento Unico fa infine sapere che ritiene indispensabile proseguire lo stato di agitazione e mantenere alta l'attenzione sull'università, in ambito locale e nazionale, e annuncia “una petizione programmatica che, sulla scorta del documento dei giorni scorsi, promuova un percorso di audizioni e dibattito da cui emergano i contenuti fondamentali che dovranno ispirare la redazione dello Statuto”.

venerdì 28 gennaio 2011

nota CISL su nuovi statuti universitari

 da Messaggero Unical del 28.1.2011

Ai Rettori
Ai Direttori Amministrativi
LORO SEDI


Con la trasformazione del DDL Gelmini nella Legge 30 dicembre 2010, n. 240 si chiudono due anni di discussioni e di contestazioni su tutti i fronti interessati al “sistema Università”. Come Federazione CISL Università abbiamo espresso in tutte le sedi le nostre critiche sugli aspetti negativi di cui è permeata tutta la Legge in oggetto, a partire dalla evidente riduzione dell’autonomia costituzionale per finire con l’assoluta mancanza di finanziamenti finalizzati all’implementazione della riforma Gelmini. Ma recriminare su quello che si sarebbe ritenuto un testo legislativo più aderente ad una riforma democratica dell’Università pubblica è solo tempo sprecato; ora occorre andare avanti nella costruzione del nuovo modello istituzionale.
Un aspetto cruciale della nuova “Governance” è costituito dalla elaborazione di uno Statuto che sia rispondente al dettato legislativo; è un passaggio fondamentale ed impegnativo per rinnovare gli organismi di autogoverno delle singole comunità accademiche. 
Come le SS.VV. ben sanno al fine di  concretizzare questo processo di definizione degli Statuti si dovranno istituire in ogni Ateneo delle Commissioni “ad hoc”, per elaborare il testo fondante “del  nuovo corso”, entro 6 mesi dall’entrata in vigore della Legge 240/2010; Commissioni che sono definite nella loro composizione dal comma 5 dell’art. 2 tramite emanazione di appositi decreti rettorali. 
Come da anni sosteniamo con vigore che negli organismi di autogoverno debbano essere rappresentate tutte le “categorie” attive nel processo istituzionale (Docenti, Ricercatori, Tecnici Amministrativi, Studenti) così ci sentiamo legittimati a rivendicare la stessa dignità rappresentativa per la scelta dei componenti della suddetta Commissione; se gli Studenti vengono garantiti per legge ci pare logico inserire, in modo equilibrato e autorevole, docenti di I e II fascia, ricercatori e tecnici amministrativi.
 
La scrivente Federazione ritiene prioritario avviare un dialogo costruttivo con le SS.VV. affinchè si possano mantenere salde le democratiche rappresentanze oggi esistenti, senza arrecare mortificazioni ad una o più figure che contribuiscono in modo significativo al servizio istituzionale, nel progetto riformistico di cui lo Statuto sarà “la pietra angolare” dell’intera ristrutturazione organizzativa. 
 
Con l’occasione è gradito porgere distinti saluti.


IL SEGRETARIO GENERALE
CISL Federazione Università
(Antonio Marsilia)

giovedì 27 gennaio 2011

Lettera al Rettore sullo statuto

da ilmessaggero unical del 26.1.2011

 
Magnifico Rettore,
con l’approvazione della Legge Gelmini prende avvio la difficile fase di ridisegno degli statuti degli Atenei in un contesto di crescente riduzione dei finanziamenti. La ripartizione del FFO, con oltre un anno di ritardo, ha evidenziato la perdita di risorse per l’intero sistema universitario di un ulteriore 4%. Restano, peraltro, confermati i tagli previsti per il prossimo triennio dalla Legge 221/2010.
La FLC CGIL, fin da subito, ha contrastato l’insieme dei provvedimenti che il governo ha adottato per minare l’autonomia, la qualità e la dimensione pubblica del sistema universitario italiano.
Tuttavia, la definizione dei nuovi statuti rappresenta un passaggio delicato e importante, che deve essere inteso come un effettivo momento fondativo, capace di ravvivare gli strumenti di autogoverno della comunità universitaria e consolidarne il carattere democratico. E’ proprioquesta, a nostro parere, la sfida che ci consegna il drammatico contesto nel quale gli Atenei sono costretti a rivedere i propri statuti: fare di questo passaggio, a dispetto dello spirito della Legge, una opportunità di rinnovamento, di qualificazione e di riforma democratica del sistema. I movimenti di questi mesi, animati in particolare dagli studenti e dai ricercatori ma in grado di coinvolgere tutte le componenti dell’università, hanno promosso ipotesi alternative di riforma fondate su una dimensione democratica partecipativa e pubblica degli Atenei. A quello straordinario patrimonio di idee, di proposte e di istanze di autogoverno si dovrà dare piena cittadinanza. Per questa ragione noi auspichiamo che il processo di definizione dei nuovi statuti si sviluppi con trasparenza, con forme appropriate di partecipazione e che, pertanto, le modifiche agli statuti siano l’espressione della convinta adesione della maggioranza delle diverse componenti ad un progetto “culturale“ che caratterizzi le università nella loro piena e più vera autonomia. Fin dalla composizione delle commissioni “statuto”, alle quali verrà demandato l’onere di definire i molteplici regolamenti di Ateneo previsti dalla Legge, crediamo sia indispensabile dare uno spazio adeguato a tutte le componenti universitarie, così da renderle egualmente partecipi. In questo modo potranno dare il loro contributo, oltre ai docenti, i ricercatori strutturati e precari, gli studenti che in questi mesi hanno condotto una importante lotta a difesa dell’Università pubblica, il personale contrattualizzato che regge in maniera decisiva le molteplici attività degli Atenei. Per questa ragione la composizione delle commissioni dovrebbe avere modalità elettiva.
Coerentemente siamo anche convinti che nei futuri organi di autogoverno degli Atenei debbano esserci rappresentanze per tutte queste figure il cui contributo, oggi come domani, deve essere pienamente riconosciuto.
La FLC CGIL è determinata ad offrire un contributo positivo nello sforzo di riorganizzazione del sistema universitario italiano, svilito e messo sotto scacco da politiche scellerate. Con altrettanta decisione proseguirà, con ancora maggiore forza nel paese e negli Atenei, il contrasto ai provvedimenti del governo e alle logiche che esso vorrebbe imporre, impegnandosi a tutela e garanzia della dimensione pubblica del sistema universitario, al fianco di tutti coloro che, ricercatori, studenti, precari, docenti, personale contrattualizzato, semplici cittadini, ne hanno a cuore le sorti. Riteniamo pertanto importante avviare subito il confronto sulle nostre richieste affinché si possano evitare decisioni unilaterali che finirebbero per mortificare ulteriormente il profilo democratico degli Atenei seriamente compromesso da una riforma burocratica e autoritaria.


Distinti saluti.
Il Segretario Generale FLC CGIL
Domenico Pantaleo

mercoledì 26 gennaio 2011

Università, La metà dei professori ordinari ha oltre 60 anni

 da www.diariodelweb.it


ROMA - Quasi il 50% dei professori universitari, circa 7.800, ha oltre 60 anni; più di 3mila dei docenti accademici, il 20% del totale, ha più di 65 anni; soltanto il 5% ha meno di 41 anni. A sostenerlo è il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che ha oggi presentato l'XI rapporto sullo stato del sistema accademico.Complessivamente circa il 28% dei docenti sono professori ordinari, il 29% professori associati e 43% ricercatori. "La distribuzione per età - si legge nel rapporto - è variabile da istituzione a istituzione. Le università meno giovani hanno generalmente professori più anziani. L'età media dei professori ordinari passa dai 58 anni del 1998 ai 63 anni nel 2010". Scarseggiano i giovani anche fra i professori associati. Quelli con più di 65 anni sono circa il 6,5% e quelli con età superiore ai 60 anni sono il 23%. Soltanto uno su venti ha meno di 41 anni.Non va molto meglio per i ricercatori: per quanto riguarda quelli con fascia di età fra i 35 e i 40 anni risultano nel 2010 più numerosi, mentre nel 1998 la fascia d'età con presenza maggiore di ricercatori era quella fra i 45 e i 50 anni. Ed anche le età medie aumentano: per i professori ordinari, l'età media nel 1988 era di 54 anni e diventa di 59 nel 2010. Quella degli associati era di 47 e diventa di 53. Quella dei ricercatori era di 39 e diventa di 45.Per quanto riguarda le differenze di genere, il dato principale è che ogni quattro uomini c'è una donna ordinario. "Tra i professori ordinari - fa sapere il comitato di valutazione - la presenza di donne varia dal picco del 42,2% per l'area di scienze dell'antichità al minimo del 5,8% di Ingegneria industriale e dell'informazione. Il valore totale è pari a circa il 20%, ovvero di una donna professore ordinario ogni 4 maschi". Maggiore, invece, la presenza delle ricercatrici: "nel 2010, rappresentano il 45% del totale. Le donne sono in maggioranza nelle aree di scienze chimiche, Scienze storiche, scienze biologiche e scienze dell'antichità".

martedì 25 gennaio 2011

GELMINI AFFOSSA L'UNIVERSITÀ

L'Espresso - PIERO IGNAZI

POTERE&POTERI

Una riforma sciagurata che porterà gli atenei alla decadenza e all'impoverimento togliendo loro autonomia e avviandoli alla dequalificazione


Accentratrice, pauperizzante, superflua, demagogica, punitiva, antistudentesca. Si può continuare a lungo ad elencare i difetti della legge sull'Università promossa e difesa a spada tratta dal governo Berlusconi. Una riformetta, in realtà, che cambierà poco nella vita universitaria: ma per quel poco contribuirà molto all'affossamento dell'istruzione superiore. Punto primo: la legge Gelmini toglie autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali più fitti e pervasivi, annulla la flessibilità nelle decisioni, riduce gli organi accademici a passacarte, riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di accesso né le finalità. Almeno portassero soldiPunto secondo: smantella il sistema pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci risiamo con "università" fatte in cortile equiparate alle più prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori, anche il mitico Cepu, quello che favoriva gli studenti ritardatari o in altre faccende affaccendati, quello il cui presidente ha dichiarato di mettere la propria struttura al servizio della campagna elettorale di Berlusconi, quello per i cui legami familiari la deputata finiana Catia Polidori ha salvato il governo; anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e ricerca. Punto terzo: la grande favola della meritocrazia. Già dalla modalità con la quale vengono immessi ope legis istituti indegni della qualifica di università si capisce quanto poco importi della meritocrazia a questo governo - che ha dimostrato ad abundantiam di apprezzare soprattutto qualità non specificamente intellettuali. L'introduzione di un organo indipendente di valutazione degli atenei è fumo negli occhi. Era stato istituito in precedenza e poi è rimasto lettera morta. Del resto, da tempo molte università distribuiscono questionari agli studenti per avere i loro giudizi. E i curriculum dei docenti sono in Rete e accessibili a tutti. Tuttavia, al di là della dissonanza tra parole e fatti, è assai apprezzabile che il merito venga assunto quale criterio fondante della vita accademica. Purtroppo tale criterio è invocato solo in questo campo, senza diventare il principio ispiratore di tutta la società. Se tutto il resto del Paese si muove con logiche diverse da quelle meritocratiche, privilegiando "le conoscenze" rispetto alla conoscenza, è molto, molto difficile che la meritocrazia prevalga senza macchia solo nelle università. Ammesso tutto questo, il corpo accademico deve però fare mea culpa sul suo indulgere a logiche clientelari e baronali. Chi ha partecipato ai concorsi sa quanto è difficile scalfire questo sistema consortile. Quindi, l'ennesima riforma delle procedure di | reclutamento avrà successo solo se cambieranno mentalità e prassi (anche) I dei docenti. Almeno su questo, assolviamo la Gelmini. Infine, l'elemento più importante: i finanziamenti. I governi di centrodestra hanno scientemente perseguito l'obiettivo di far morire d'inedia il sistema dell'istruzione pubblica favorendo quello privato (con il bel risultato che le nostre scuole private, uniche nei paesi Ocse, sfornano studenti meno preparati di quelle pubbliche). Negli ultimi anni i finanziamenti all'università si sono costantemente assottigliati e altri tagli si abbatteranno ancora con il risultato di ridurre attrezzature e biblioteche, borse di studio e finanziamenti alla ricerca, partecipazione ai convegni internazionali e reclutamento di giovani leve. Senza fondi la ricerca non progredisce e l'eccellenza si allontana. E in particolare, come è ormai norma nella nostra società, viene penalizzato il reclutamento dei giovani, visto che su cinque pensionati si potrà reclutare un solo nuovo docente: esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario. Il futuro che questa sciagurata riforma prospetta è nerissimo e si riassume in decadecanza e impoverimento, accentramento e dequalificazione.

domenica 23 gennaio 2011

The day after

 dal sito lelloagostino.blogspot.com del 22.1.2011




Siamo al day after. C'è una grande tensione nell'UniCal in seguito alla pubblicazione della cosiddetta legge Gelmini (legge n. 240/2010) nella Gazzetta Ufficiale del n. 10 del 14/01/2011, che entrerà in vigore a partire dal 29/01/2011.
Si stanno moltiplicando le prese di posizione di organismi, assemblee ed organizzazioni che in maniera trasversale mostrano una incoraggiante voglia di partecipazione alla riscrittura dello statuto a cui siamo chiamati a partire dal prossimo mese.
Credo sia utile a tutti avere, per completezza di informazione, una visione dei documenti che finora sono stati approvati sull'argomento. Vi spedisco quindi una collezione di quelli di cui sono in possesso fino al momento. Mi è stato riferito che un documento è stato anche preparato dalle organizzazioni sindacali ma non ne ho copia.


Petizione ricercatori
Documento precari
Mozione CdF Scienze Politiche
Delibera CdF Economia
Mozione CdDip Fisica
Documento CoCoP

Analoghe istanze vengono presentate congiuntamente in queste ore in tutti gli Atenei italiani. Alcune le potete trovare sui siti della Rete 29 aprile e dal Coordinamento nazionale dei Professori associati.

giovedì 20 gennaio 2011

I NATI TRA 2006 E 2008 SANNO USARE IL PC PRIMA DI SAPER ALLACCIARE LE SCARPE

da sito www.clandestinoweb.com del 20-1-2011

Se vostro figlio è nato tra il 2006 e il 2008, è probabile che abbia già imparato a destreggiarsi con l'iPad anche se non è ancora in grado di allacciarsi le scarpe o di andare in bicicletta. Il destino dei bambini che sin dai primi mesi di vita hanno a che fare con computer e apparecchi tecnologici prima di aver imparato abilità utili nella vita di tutti i giorni. A confermare quello che molte famiglie notano nella loro quotidianità è un'indagine di Avg, azienda slovacca che produce software antivirus e che ha dato vita a un progetto di ricerca con l'obiettivo d'individuare come è cambiata l'interazione tra bambini e tecnologie.

In particolare, sono state interpellate 2.200 mamme dei Paesi più sviluppati, tra cui l'Italia, con figli in età compresa tra 2 e 5 anni. Alle donne è stato chiesto di rispondere a un questionario sulle abilità dei loro bambini. I quali, nel 58% dei casi sanno giocare a un videogame di livello base contro il 52% di quanti hanno già imparato ad andare in bicicletta. Dopo la capacità di completare un puzzle, riscontrata nel 77% dei casi, l'abilità più diffusa tra i piccoli è l'uso del mouse, e quindi la padronanza di movimento all'interno di un ambiente virtuale: lo fa il 69%, mentre il 63% sa accendere e spegnere un pc. Se per chiedete a un bambino di quell'età qual è il suo indirizzo di casa, solo il 37% vi risponderà correttamente mentre il 20% è in grado di nuotare senza assistenza. Meno di quanti siano in grado di usare il cellulare per fare una chiamata (il 28%) o di quelli capaci di lanciare un programma di navigazione web e accedere a Internet (il 25%). Se il 19% riesce a giocare con un'applicazione su dispositivi touch come tablet e smartphone, appena l'11% sa già allacciarsi le scarpe, percentuale che sale al 14% se si guarda alla fascia di età tra i 4 e i 5 anni, quella che precede immediatamente l'ingresso alla scuola primaria.

Non si notano particolare differenze di genere: maschi o femmine, i giovani digitali hanno tutti lo stesso approccio alle tecnologie mentre il fatto di avere una mamma con più di 35 anni sembra incentivare leggermente lo sviluppo di attività più tradizionali, come il nuoto o la scrittura, ma non incide nell'acquisizione di quelle hi-tech. Quello che l'indagine non dice è se e come la padronanza precoce delle abilità digitali influisca sull'apprendimento di quelle pratiche da parte di questi bambini ma questo si potrà capire tra qualche anno. Ai genitori, come sempre, spetta il compito di stare accanto ai propri figli, insegnando loro a muoversi nel mondo reale, oltre che in quello digitale. Altrimenti, il rischio è che vadano su YouTube per vedere come devono fare per allacciarsi le scarpe.

domenica 16 gennaio 2011

La riforma universitaria spiegata ai non addetti ai lavori

di Daniele Terlizzese 14.01.2011 pubblicato su sito www.lavoce.info


L'impianto della riforma dell'università è in linea di principio coerente e razionale. Tuttavia nel testo mancano spesso dettagli importanti per valutare l'efficacia concreta delle disposizioni. Così come molte volte non è indicata o sembra eccessivamente limitata l'entità delle risorse per realizzarle. I meccanismi per la valutazione o l'incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta di fondo fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare.

La riforma dell’università ha portato in piazza decine di migliaia di studenti, è stata salutata come epocale o liquidata come irrilevante. Le forti reazioni che ha suscitato sono giustificate: ha un’importanza cruciale per il futuro del paese e delle nuove generazioni. Ma il cittadino che volesse farsi autonomamente un’idea troverebbe la legge di ardua lettura: 37 pagine, 20mila parole, periodi infarciti di riferimenti incrociati e involuti. In alternativa, offro al lettore una versione liberamente interpolata della legge, che rende più semplice individuarne le idee-guida ed esaminare come queste prendono corpo nelle varie disposizioni. (1)
Mi concentro, tuttavia, sulla configurazione a regime dell’università che emerge dalla legge, tralasciando le disposizioni transitorie. Non si tratta di un’omissione irrilevante, poiché in linea di principio una disposizione transitoria (per esempio, una “sanatoria”) potrebbe pregiudicare la configurazione a regime.
IDEE-GUIDA DI UNA RIFORMA
La legge ha quattro idee-guida:
a)      l’introduzione di meccanismi per “incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”;
b)      l’introduzione di meccanismi standardizzati per il reclutamento, per la valutazione della ricerca e della didattica;
c)      l’introduzione di una disciplina finanziaria analoga a quella di qualunque “impresa”, con obblighi di programmazione, rendiconto, trasparenza;
d)      l’introduzione di un percorso di ingresso nell’università analogo al tenure-track anglosassone: un periodo pluriennale in cui dare prova delle proprie capacità di ricerca, prima di avere accesso a una posizione a tempo indeterminato (che non è scontata).
Prevede inoltre una riorganizzazione della struttura interna e di governo dell’università, strumentale al mettere in pratica le idee-guida. Di questa non mi occuperò; di nuovo, l’omissione non è innocua, poiché è possibile che la struttura di governo non sia coerente con i principi che si vogliono realizzare.
Le quattro idee-guida si sostengono reciprocamente: il tenure-track fornisce incentivi potenti all’intensità dell’impegno, e si legittima solo con la garanzia che i meccanismi di reclutamento e di valutazione siano basati sul merito; la presenza di incentivi a migliorare la qualità della ricerca e della didattica presuppone la disciplina finanziaria: se il vincolo di bilancio è aggirabile, nessun incentivo alla qualità può funzionare; l’incentivazione della qualità ha un senso solo se combinata con meccanismi che la identifichino efficacemente. Si tratta quindi di un impianto che, in linea di principio, è coerente e razionale.
Ma, come si dice, il diavolo è nei dettagli. Vediamo di affrontarli.
I MECCANISMI DI INCENTIVAZIONE
Ho individuato nove meccanismi di incentivazione alla qualità: uno è la concessione alle università migliori di margini di autonomia organizzava; due stabiliscono l’attribuzione di fondi in funzione della qualità della ricerca e della didattica e delle procedure di reclutamento; un altro stabilisce che la quota attribuita in funzione della qualità cresca anch’essa in funzione della qualità (media) del sistema; due introducono premi o punizioni (di carattere economico o extraeconomico) ai singoli professori, in funzione della qualità; uno stabilisce che gli studenti migliori ricevano incentivazioni di carattere monetario. Gli ultimi due sono più indiretti: uno stabilisce che alle università peggiori venga attribuita una quota ridotta di un fondo perequativo; l’altro stabilisce che gli atenei ricevano fondi in relazione al “costo standard” di ciascuno studente e quindi che le sedi più efficienti (con costi inferiori a quello standard) e che attraggono più studenti risultino dotate di maggiori fondi.
Già la numerosità e la frammentarietà dell'elenco fa sospettare che i vari meccanismi non compongano un quadro coerente e ben disegnato. Esaminandoli più in particolare si nota che, quasi sempre, ancora non se ne conosce il funzionamento specifico, essendo i dettagli rinviati a provvedimenti ministeriali, e non ne è ancora indicata la dimensione finanziaria: l’impressione che si vogliano fare “le nozze con i fichi secchi” è difficile da allontanare.
Ci sono formulazioni ambigue: per esempio, non è chiaro se la quota del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) attribuita in funzione della qualità sia addizionale o sostitutiva di quella già prevista dalla legislazione vigente. Alcuni dei meccanismi potrebbero avere una “carica incentivante” debole o nulla: per esempio, è verosimile che la penalizzazione economica prevista per i professori valutati negativamente (per un ordinario la valuto in circa 6mila euro lordi in media per ciascuno scatto triennale) sarà limitata a pochi casi eclatanti, in conseguenza della natura non graduabile (binaria) della valutazione stessa e della penalizzazione, e quindi sarà uno strumento spuntato. (2) Oppure, l’aumento della qualità di una università determina un aumento meno che proporzionale della quota dell’Ffo attribuita a quella università. Alcuni meccanismi, per essere efficaci, ne presuppongono altri che invece mancano: per esempio, l’attribuzione di fondi legata al numero di studenti attratti, potenzialmente un incentivo per gli atenei a migliorare la qualità della propria offerta, presuppone una selettività da parte degli studenti che la legge non fa nulla per favorire: non c’è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, non ci sono interventi incisivi in merito alla pubblicità e la comprensibilità dell’informazione sulla qualità delle varie sedi. Più in generale, la legge risente di un approccio eccessivamente “dirigista”: invece di lasciare alle università la responsabilità di attrarre maggiori risorse (anche facendo pagare rette adeguate) e di distribuirle al loro interno, si fissano a priori criteri e meccanismi con il rischio di scoprire, alla prova dei fatti, che questi non funzionano o sono insufficienti.
VALUTAZIONE E DISCIPLINA FINANZIARIA
Gli organismi coinvolti a vario titolo nella valutazione sono l’Anvur, il nucleo (interno) di valutazione, la commissione paritetica docenti-studenti. In genere l’Anvur ha la funzione di definire i criteri, gli altri organismi li applicano. Questo implica che l’indipendenza, l’autorevolezza e la qualità dell’Anvur e dei suoi componenti sono cruciali nel determinare l’efficacia dei meccanismi di valutazione: si tratta di decisioni non ancora prese, che andranno monitorate con attenzione. Allo stesso tempo, la legge stabilisce numerosi (cinque) e articolati momenti di valutazione, che seguono le varie fasi e aspetti della produzione accademica.
La pluralità di momenti e di istanze valutative rischia di essere esposta a fenomeni di cattura, “dirottamento”, scambio di favori. Più in generale, il limite di questo approccio riflette la scelta di fondo che la legge ha fatto. La valutazione della qualità può essere lasciata a meccanismi decentrati e concorrenziali, al “mercato”, oppure può essere il risultato di processi istituzionali appositamente disegnati, di “certificazione”. La legge ha scelto, chiaramente, la seconda strada. Ora, mentre il mercato può essere flessibile, graduale, adattarsi rapidamente a circostanze che cambiano, la certificazione è per sua natura più rigida, è spesso binaria (si-no), tende a sopravvivere le condizioni nelle quali è stata disegnata. Inoltre, mentre il mercato è essenzialmente anonimo e quindi difficilmente coartabile, la certificazione è riconducibile a soggetti ben identificati e che possono essere oggetto di pressioni talvolta irresistibili, oltre a sollevare l’ovvio problema di “chi valuta i valutatori?”.
Quanto alla terza idea-guida, la disciplina finanziaria, la legge prevede tre tipi di interventi: l’introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale previsivo e consuntivo; il raggiungimento di livelli predefiniti per alcuni usi delle risorse; la possibilità di dichiarare lo stato di dissesto finanziario per una università e le conseguenti misure di correzione (penalizzanti per gli amministratori responsabili).
Come per molti altri aspetti della legge, la specificazione concreta di questi interventi è rinviata a un secondo momento e alla responsabilità del governo. Inoltre, l’idea di fissare target riguardanti la struttura del bilancio e l’organizzazione interna delle università mi sembra eccessivamente prescrittiva: perché dovrebbero essere stabiliti dal ministero aspetti che rientrano ampiamente nei margini di autonomia delle varie università? Nel complesso, comunque, le disposizioni contenute nella legge mi sembrano ragionevoli.
LA CARRIERA DEI RICERCATORI
Infine, consideriamo la quarta idea-guida, l’introduzione del tenure-track. La legge stabilisce che l’accesso al gradino iniziale della carriera accademica (ricercatore) non sia più a tempo indeterminato, ma preveda un periodo di minimo sei, massimo otto anni con un contratto a tempo determinato. (3)
L’idea che l’accesso alla carriera accademica richieda un periodo (lungo) durante il quale la persona dimostra di essere portata per la ricerca e l’insegnamento è scontata nei sistemi universitari di molti paesi. È un periodo in cui è massimo l’incentivo all’impegno, durante il quale si gettano i semi della produzione scientifica degli anni successivi e che funziona molto bene come meccanismo di selezione e allocazione efficiente del talento. Negli altri sistemi universitari si presenta con una importante caratteristica, la gradualità: un ricercatore nel tenure-track di una delle università più prestigiose, se non ottiene da questa l’offerta di un contratto a tempo indeterminato (la tenure), probabilmente trova una collocazione in una università leggermente meno blasonata, e così via via scendendo nella graduatoria della qualità. In definitiva, il sistema garantisce un accoppiamento efficiente tra la qualità dei ricercatori e quella delle università e solo la coda inferiore della distribuzione dei talenti viene in genere espulsa dal mondo accademico.
Il sistema italiano non ha questa caratteristica. L’abilitazione nazionale è un criterio più rigido, non graduabile: se è molto esigente, finisce per espellere dal mondo accademico risorse che avrebbero potuto dare un contributo scientifico e didattico positivo, pur se non di frontiera; se è poco esigente, mina alla radice l’idea stessa di premiare la qualità; qualunque sia il livello prescelto, questo vale per tutti, non consente adattamenti e gradualità di utilizzo. Di nuovo, i limiti della legge derivano dalla scelta di un approccio “certificatorio” alla valutazione della qualità, che per sua natura è meno flessibile, graduabile e adattabile di un approccio “di mercato”.
In sintesi: le quattro idee guida della legge sono condivisibili, più problematico è il giudizio sulla loro concreta realizzazione. Spesso mancano dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta di una determinata disposizione; l’entità delle risorse per realizzare alcune delle sue disposizioni spesso non è indicata o sembra eccessivamente limitata; molti dei meccanismi introdotti dalla legge per la valutazione o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta di fondo fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare (e liberalizzare).
Poiché una regola vale per tutti, tale scelta è in linea di principio incompatibile con una marcata differenziazione tra università: l’auspicio (implicito) del legislatore è che tutte raggiungano uno standard qualitativo comune. Ci si può chiedere se questo sia realistico e opportuno, se non sia più efficiente concentrare le risorse per creare alcuni (pochi) centri di eccellenza a fianco di (più numerose) università specializzate nell’insegnamento. La questione è complessa e coinvolge la natura stessa dell’università in una società democratica, la tensione tra la formazione di un’elite e la diffusione di massa della cultura, temi che non voglio né posso affrontare qui. Ètuttavia possibile, e auspicabile, che negli interstizi della concreta applicazione della legge alcune università (o aggregazioni di università/dipartimenti), animate da un più marcato intento riformatore e un genuino interesse per la qualità, riescano a differenziarsi.
(1) Il lettore che lo desidera può leggere anche una versione più ampia della mia valutazione analitica della legge.
(2) La penalizzazione non economica (l’esclusione dalle commissioni di abilitazione, selezione e progressione di carriera) potrebbe peraltro avere effetti più rilevanti: impedendo l’esercizio di un potere di pressione sulle commissioni da parte di professori che non rispettino gli standard richiesti (i “baroni” che avrebbero fatto assumere i loro “protetti” più fedeli, piuttosto che i più bravi).
(3) C’è un primo periodo di prova (e una prima tipologia di contratto), che può durare tre o cinque anni, dopo il quale c’è un secondo periodo di tre anni (e una seconda tipologia di contratto, con uno stipendio superiore), alla fine del quale c’è la possibilità dell’assunzione in ruolo, che comunque richiede l’abilitazione. Non è chiaro in quali circostanze il primo tipo di contratto potrà durare tre anni, in quali potrà essere esteso di altri due.

mercoledì 12 gennaio 2011

I terremoti diventano tragedia nei paesi con alta corruzione

Nel giorno della commemorazione del terremoto di Haiti, la rivista scientifica Nature pubblica uno studio sul rapporto tra danni, vittime e livello di corruzione dei Paesi. E punta il dito sull'Italia, sostenendo che l'antidoto ai disastri conseguenti a eventi sismici è nella lotta alla disonestà
di JACOPO PASOTTI (da sito www.repubblica.it)

Un anno dopo il violento terremoto che si è abbattuto su Haiti, la capitale Porte-au-Prince è ancora in stato di emergenza, con centinaia di migliaia di terremotati tutt'ora ammassati in tendopoli precarie ed il colera che imperversa. Ma la causa di queste tragedie è unicamente naturale? No, rispondono gli studiosi. I sismologi Nicholas Ambraseys (Imperial College di Londra) e Roger Bilham (Università di Boulder in Colorado) spiegano su Nature che in alcuni paesi non solo la povertà ma anche una dilagante illegalità, sono il vero nemico da combattere per difendersi dai terremoti. Gli esperti dimostrano con la statistica che il legame tra corruzione e numero di vittime non è solo un dato anedottico o materia per alimentare sospetti impalpabili, ma un fattore quantificabile.

Lo Studio. Bilham and Ambraseys hanno confrontato i dati sulle vittime dei maggiori sismi mondiali con il reddito pro capite e l'indice della corruzione percepita di Transparency 1, organizzazione internazionale no profit, basata a Berlino, che da 18 anni monitora e dununcia i casi di corruzione in tutto il mondo producendo un vero "barometro" annuale della corruzione. L'indice, che è ricavato da studi statistici, ordina le nazioni in base alla percezione di pubblici ufficiali e politici sulla diffusione della disonestà all'interno delle istituzioni. L'Italia si colloca immediatamente sotto al Ruanda e sopra alla Georgia. I sismologi hanno notato che negli ultimi 30
anni la maggioranza (83%) dei morti causati dal crollo di edifici ed infrastrutture si trova in nazioni più corrotte rispetto ad altre di pari reddito nazionale lordo pro capite (Gross National Income Per Capita, GNI).

"Il nostro scopo non era evidenziare il rapporto tra povertà ed incidenti mortali, che è ovvio", spiega Bilham, "ma vedere se la statistica ci permetteva di rilevare il peso della disonestà durante un terremoto, soprattutto sulla sicurezza degli edifici".

L'anomalia Italia. Se le nazioni più ricche possono permettersi di educare la popolazione al rischio sismico e realizzare edifici antisismici, è difficile comprendere come l'Italia (20mo posto per GNI) registri ancora tante vittime. "L'Italia ha ingegneri e sismologi di fama mondiale, è tra le nazioni più ricche al mondo, cosa le manca allora?", si interroga Bilham. Secondo lo studioso il nostro paese spicca per vittime e corruzione al fianco di Grecia e Russia, pure esse ricche per GNI ma anche per disonestà. Merito allora di una maggiore integrità, notano i ricercatori, se a parità di ricchezza la Nuova Zelanda è più preparata di noi a difendersi da un sisma. Perfino il Cile dimostra un livello di corruzione e, quindi di vittime, inferiori al nostro paese.

Colpa quindi di un sistema facilmente corruttibile se, come dice Carlo Meletti, sismologo all'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, "in Italia paghiamo il prezzo di avere gran parte del patrimonio abitativo vecchio e non antisismico. È dopo il terremoto dell'Irpinia che si è avuta in Italia la prima normativa tecnica antisismica moderna". Troppo facile liquidare tutto con il leitmotiv della eredità architettonica antica, conclude infatti Meletti: "Strumenti e risorse ci sarebbero ma sono ancora pochi i casi di interventi preventivi, possibili anche su edifici antichi".

La ricerca potrà non stupire gli abitanti della penisola ma è il primo "strumento scientifico utile ad organismi internazionali e fondazioni per prestare maggior attenzione nella distribuzione di finanziamenti ed aiuti nei paesi con più alta incidenza di corruzione", dicono gli estensori del rapporto. Poca speranza, infine, per paesi come Haiti, Pakistan, e Iran, dove se anche la corruzione sparisse, rimarrebbero migliaia di edifici insicuri costruiti da mani corrotte. (12 gennaio 2011)

martedì 11 gennaio 2011

Passata la festa ...... gabbato lo santo

da sito http://coordinamentoprecariuniversita.wordpress.com del 2.1.2011

(E ANCHE LA GELMINI, LA CRUI, VALDITARA, QUAGLIARIELLO…)
In perfetta simultaneità con la definitiva promulgazione della cosiddetta “riforma Gelmini” (in realtà “legge Tremonti”), è apparso in Gazzetta Ufficiale il testo del tradizionale decreto milleproroghe di fine anno. Stavolta, c’è un bel regalo per tutto il mondo universitario: l’assenza della proroga degli sconti nel calcolo della spesa in stipendi degli atenei. Evitando di entrare nei dettagli tecnici, questa bella novità avrebbe l’effetto di portare quasi tutte le università oltre il 90% nel rapporto stipendi/FFO, provocando un blocco del reclutamento che comprenderebbe anche i nuovi contratti da ricercatore a TD, ovvero la “tenure trash”, pilastro della pseudo-riforma appena approvata dal Parlamento.
Non c’è voluto molto tempo perché si chiarisse in maniera inequivocabile e definitiva quale è il vero fine della politica universitaria dell’attuale maggioranza di governo: non riforme epocali, ma epocale distruzione del sistema dell’istruzione universitaria e delle ricerca pubblica. E’ evidente che il ministro Gelmini e i suoi pretoriani (i vertici della CRUI, il consulente Schiesaro, i senatori Quagliariello, Valditara, Asciutti, Possa…) sono stati bellamente presi in giro dal ministro dell’economia. Se davvero si volesse valorizzare il merito nel nostro paese, questi personaggi, a partire dal ministro, dovrebbero prendere atto della propria incapacità politica e rassegnare immediatamente le dimissioni dagli incarichi che ricoprono. Purtroppo, come era facile intuire il vero fine della politica universitaria di Tremonti, è altrettanto facile prevedere che, come al solito, prevarrà l’amore per le poltrone e per le posizioni raggiunte.
Non potendo contare sull’azione del ministro e tantomeno su quella di coloro, a partire dalla CRUI, che in questi mesi sono stati complici interni ed esterni della devastazione dell’università, ci rivolgiamo al mondo universitario e a tutte forze che si stanno battendo per la difesa e il miglioramento dell’università pubblica affinché esercitino la propria
pressione per contrastare anche questa nuova iniziativa del ministro dell’economia.
Coordinamento dei Precari della ricerca e della docenza – Università (CPU)

Gelmini, riforma sciagurata

di Piero Ignazi da sito www.espresso.repubblica.it - 30.12.2010
Inutile girarci tanto intorno: la nuova legge sull'università è orrenda. Per la precisione: accentratrice, impoverente, demagogica, punitiva e sostanzialmente contro il futuro degli studenti. Ecco perché

Accentratrice, pauperizzante, superflua, demagogica, punitiva, antistudentesca. Si può continuare a lungo ad elencare i difetti della legge sull'Università promossa e difesa a spada tratta dal governo Berlusconi. Una riformetta, in realtà, che cambierà poco nella vita universitaria: ma per quel poco contribuirà molto all'affossamento dell'istruzione superiore.

Punto primo: la legge Gelmini toglie autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali più fitti e pervasivi, annulla la flessibilità nelle decisioni, riduce gli organi accademici a passacarte, riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di accesso né le finalità. Almeno portassero soldi...

Punto secondo: smantella il sistema pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci risiamo con "università" fatte in cortile equiparate alle più prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori, anche il mitico Cepu, quello che favoriva gli studenti ritardatari o in altre faccende affaccendati, quello il cui presidente ha dichiarato di mettere la propria struttura al servizio della campagna elettorale di Berlusconi, quello per i cui legami familiari la deputata finiana Catia Polidori ha salvato il governo; anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e ricerca.

Punto terzo: la grande favola della meritocrazia. Già dalla modalità con la quale vengono immessi ope legis istituti indegni della qualifica di università si capisce quanto poco importi della meritocrazia a questo governo - che ha dimostrato ad abundantiam di apprezzare soprattutto qualità non specificamente intellettuali.

L'introduzione di un organo indipendente di valutazione degli atenei è fumo negli occhi. Era stato istituito in precedenza e poi è rimasto lettera morta. Del resto, da tempo molte università distribuiscono questionari agli studenti per avere i loro giudizi. E i curriculum dei docenti sono in Rete e accessibili a tutti. Tuttavia, al di là della dissonanza tra parole e fatti, è assai apprezzabile che il merito venga assunto quale criterio fondante della vita accademica.
Purtroppo tale criterio è invocato solo in questo campo, senza diventare il principio ispiratore di tutta la società. Se tutto il resto del Paese si muove con logiche diverse da quelle meritocratiche, privilegiando "le conoscenze" rispetto alla conoscenza, è molto, molto difficile che la meritocrazia prevalga senza macchia solo nelle università.

Ammesso tutto questo, il corpo accademico deve però fare mea culpa sul suo indulgere a logiche clientelari e baronali. Chi ha partecipato ai concorsi sa quanto è difficile scalfire questo sistema consortile. Quindi, l'ennesima riforma delle procedure di reclutamento avrà successo solo se cambieranno mentalità e prassi (anche) dei docenti. Almeno su questo, assolviamo la Gelmini.

Infine, l'elemento più importante: i finanziamenti. I governi di centrodestra hanno scientemente perseguito l'obiettivo di far morire d'inedia il sistema dell'istruzione pubblica favorendo quello privato (con il bel risultato che le nostre scuole private, uniche nei paesi Ocse, sfornano studenti meno preparati di quelle pubbliche).
Negli ultimi anni i finanziamenti all'università si sono costantemente assottigliati e altri tagli si abbatteranno ancora con il risultato di ridurre attrezzature e biblioteche, borse di studio e finanziamenti alla ricerca, partecipazione ai convegni internazionali e reclutamento di giovani leve. Senza fondi la ricerca non progredisce e l'eccellenza si allontana. E in particolare, come è ormai norma nella nostra società, viene penalizzato il reclutamento dei giovani, visto che su cinque pensionati si potrà reclutare un solo nuovo docente: esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario.

Il futuro che questa sciagurata riforma prospetta è nerissimo e si riassume in decadecanza e impoverimento, accentramento e dequalificazione.

lunedì 10 gennaio 2011

Incontro Napolitano - rappresentanti studenti CNSU

Roma, 10 gen. (TMNews) - L'incontro di oggi tra i rappresentanti del 'Consiglio nazionale degli studenti universitari' ed il presidente Napolitano rappresenta, "in maniera inopinabile", la conferma di una mancanza di dialogo con il Governo e con il ministro Gelmini sui temi della riforma accademica: a sostenerlo è Gianluca Scuccimarra, dell'Udu e membro dell'ufficio di presidenza del Cnsu, che oggi è stato ricevuto al Quirinale assieme ad una trentina di studenti eletti nell'organo di rappresentanza studentesca riconosciuto dal Miur, durante la quale il Capo dello Stato ha confermato "grande preoccupazione per i tagli agli atenei e al diritto allo studio, che aggravano ulteriormente quelli che saranno i danni di questa riforma".
Al termine dell'incontro, Scuccimarra ha sottolineato che, invece, il ministro Gelmini "durante l'iter di approvazione parlamentare della riforma, non ha mai consultato l'organo di rappresentanza nazionale per timore di non ricevere un parere positivo sulla riforma. Non stupisce quindi - ha continuato il rappresentante dell'Udu - che gli 8 studenti su 30 eletti al Cnsu vicini al ministro Gelmini (gruppo Studenti per le Libertà - Azione Universitaria) appoggino la riforma, sarebbe strano il contrario. Il dato importante è invece che è che tutto il resto dell'organo sulla riforma si mostra o scettico o profondamente contrario".
Gli studenti contrari alla riforma hanno confermato che in questi giorni stanno preparando la nuova strategia di opposizione al testo di riforma: le scelta da attuare sono in discussione all'interno degli organi accademici degli atenei. L'intento è modificare "gli statuti delle università pubbliche", ma anche avviare "una ripresa delle assemblee studentesche per proseguire - ha concluso Scuccimarra - con una mobilitazione che vede ormai nella caduta del Governo l'unica soluzione per arenare questa riforma e per fermare il vero e proprio 'stupro' che questo Governo sta portando avanti contro il futuro del nostro Paese".

sabato 8 gennaio 2011

Prima vennero a prendere Boffo

 da www.ilfattoquotidiano.it del 8.1.2011
 
Pensavamo di averle lette tutte sul Giornale di casa Berlusconi. Non era così: il foglio di Via Negri sta superando se stesso nella funzione di randello contro chiunque osi deviare dal pensiero unico berlusconiano. Ora nel mirino c’è addirittura Vittorio Feltri, direttore feltrusconiano solo fino a qualche giorno fa. Non è questione di simpatia per gli obiettivi del giornale (da queste parti non ce n’è nessuna). Ma il “metodo Sallusti” puzza da lontano dei peggior metodi totalitari (con un buon tocco di stalinismo). Tanto da far tornare in mente una famosa poesia attribuita a Bertolt Brecht (ma secondo alcuni sarebbe di Martin Niemöller). Che abbiamo così parafrasato.


Prima di tutto vennero a prendere Boffo.
E fui contento perché era cattolico.


Poi vennero a prendere Fini.
E stetti zitto, perché mi stava antipatico.


Poi vennero a prendere Tremonti,
e fui sollevato, perché mi era fastidioso.


Poi vennero a prendere Feltri,
ed io non dissi niente, perché lui era un fascista.


Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare
“.
Si preparino nel centrodestra. Questo cupo commiato potrebbe essere presto sulla bocca di tutti loro.

giovedì 6 gennaio 2011

Scacco alla Gelmini in cinque mosse

da sito www.ilmanifesto.it del 6 Gennaio 2011

Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli interventi volti a chiarire gli aspetti più regressivi della "riforma" dell'Università testé approvata dal Parlamento. Basterà quindi osservare che, in linea con le discutibili riforme degli ultimi anni, la legge Gelmini ha come obiettivo, neanche troppo celato, l'applicazione all'Università pubblica di forme ambigue di contaminazione pubblico-privato all'insegna del cosiddetto New Public Management.
La tecnica usata negli ultimi anni per privatizzare "a costo zero" i beni comuni non riguarda tanto il trasferimento della proprietà e la trasformazione della sua natura giuridica del soggetto pubblico (tentativo comunque già presente nell'art. 16 della l. 133 del 2008 che consente ai senati accademici di votare la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato) quanto piuttosto il ricorso alla cultura privatistica dei modelli di gestione, il ricorso a modelli di governance non rappresentativi, incentrati sul ruolo del consiglio di amministrazione, evidente espressione dell'incrocio tra interessi particolari e interessi generali. Un modello che rischia di dismettere interi ambiti della nostra tradizione culturale, realizzando di fatto quella che potrebbe essere definita un'autonomia "per abbandono".

Modello privatistico di gestione
Si può dunque affermare che il ruolo pubblico dell'Università, così come fortemente voluto dalla Costituzione, risulti compresso proprio dal modello di governance delineato dalla Gelmini. Nel consiglio di amministrazione (non composto su base elettiva) dovrebbero sedere almeno tre figure estranee al mondo accademico con una formazione preferibilmente manageriale e quindi orientata a privilegiare la ricerca applicata e l'immediato sfruttamento economico del sapere e delle conoscenze. Sarà poi lo Statuto, da approvare nei successivi sei mesi, a determinare le modalità e le procedure di designazione e scelta degli stessi. Mentre al Senato accademico la legge assegna unicamente il potere di avanzare proposte di carattere scientifico, al consiglio di amministrazione spetterà la responsabilità della spesa, dell'esercizio del potere disciplinare, delle assunzioni e dei costi della gestione. Si tratta quindi, non soltanto di un organo di natura tecnico-finanziaria, ma soprattutto di un organo con poteri decisivi per quanto attiene al reclutamento, l'attivazione e la soppressione dei corsi e delle sedi. A tali poteri gestionali di natura manageriale si aggiungono il ruolo e le funzioni della nuova figura del direttore generale. Nominato dal consiglio di amministrazione, il direttore generale può essere scelto con logiche privatistiche (con un contratto di lavoro a tempo determinato di diritto privato, come peraltro è già per il direttore amministrativo) al di fuori della pubblica amministrazione.
Infine la logica privatistica che pervade tutto il testo emerge nitida e chiara nella norma che regala alle Università private un aumento delle proprie risorse in misura compresa tra il 2 e il 4%, nella possibilità di stipulare contratti con professionisti esterni e nel ricorso al modello contrattualistico per i ricercatori. Da questa logica contrattualistica e individualistica non sfugge il sostegno, che in maniera oscura e poco trasparente, sarebbe dato direttamente agli studenti per favorire il loro accesso agli studi universitari, così come la costituzione del fondo nazionale per il merito, al fine di erogare borse, basato sul c.d. prestito d'onore. Tutte operazioni fondate sulla frammentazione del diritto allo studio e sulla sua subordinazione a logiche mercantili e contrattualistiche che mettono in relazione posizioni oggettivamente diseguali e facilmente ricattabili.

Deleghe in bianco
Tra deleghe al governo, rinvii a decreti ministeriali e provvedimenti di varia natura, moltissimi contenuti della riforma dovranno essere determinati nei prossimi mesi. Sono stati contati 47 provvedimenti attuativi, ai quali vanno aggiunte le riforma statutarie che ogni università dovrà approvare entro fine giugno. Alcune di queste deleghe appaiono prive dei necessari principi e criteri direttivi, ponendosi in sostanziale contrasto con l'art. 76 della nostra Costituzione. Assolutamente in bianco sembra la delega di cui all'art. 5 che incarica il governo di trovare il modo di valorizzare l'efficienza e la qualità degli atenei, riscrivere le regole contabili sul modello aziendale e fissare i livelli essenziali delle prestazioni e del diritto allo studio.
Ma ancora più grave appare il rinvio ad atti di normazione secondaria, in materia coperte da riserva di legge. La libertà di ricerca, di insegnamento, il diritto allo studio, nel pieno rispetto dell'autonomia dell'Università prescritta in Costituzione, devono essere disciplinate con legge e non attraverso strumenti di normazione secondaria che consegnano al Ministro dell'Università, ma cosa ancora più grave, anche e soprattutto al Ministro dell'economia, protagonista in molti provvedimenti attuativi, la determinazione della disciplina. Ad esempio due punti centrali della riforma quali l'abilitazione nazionale ed i parametri di giudizio sui docenti, per distinguere i meritevoli da premiare e gli inattivi da punire, saranno determinati tout court attraverso provvedimenti ministeriali. Entro novanta giorni una serie di decreti concertati fra istruzione, economia e pubblica amministrazione dovranno definire le procedure mentre sono 60 i giorni di tempo per ridisegnare i settori disciplinari. Insomma, una giungla di provvedimenti che si pongono in conflitto con i principi costituzionali della riserva di legge e della completezza e puntualità della delega, violazioni che potranno dare luogo a processi costituzionali e amministrativi.

Modelli non rappresentativi
Il testo della "riforma" prevede che il rettore sia eletto soltanto dagli ordinari di tutte le Università italiane. Si escludono pertanto da tale processo partecipativo ed espressivo del principio di rappresentanza i professori associati ed i ricercatori a tempo indeterminato, nonché tutti gli altri lavoratori che operano all'interno dell'università e l'intero mondo degli studenti. Questa modalità di elezione rischia di favorire una designazione del rettore attraverso cordate di interessi, distaccate dal territorio, finalizzate a "controllare" le maggiori università italiane. Inoltre, alcune tra le componenti fondative dell'Università, quali i professori associati e i ricercatori, saranno escluse dai processi di reclutamento del personale universitario e dalla possibilità di dirigere dipartimenti. Si attua una gerarchizzazione elitaria e antidemocratica assolutamente priva di logica se non quella di potenziare all'interno dell'Università sistemi feudali fondati su rapporti di forza e scambio. Le altre figure saranno trasformate in fantasmi all'interno dell'Università, cioè nel luogo in cui devono contribuire a formare le coscienze e i saperi degli studenti.
Infine, va evocata la violazione dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione. Effettivamente si tratta di una legge-propaganda ricca di proclami ma priva di risorse finanziarie. Basti vedere, tanto per portare un esempio, come il tanto sbandierato fondo per il merito sia alimentato solo da versamenti spontanei di privati (fonte di disparità e diseguaglianze territoriali) e come il sostegno per i più meritevoli (principio costituzionale di cui all'art. 34) si fondi su di un prestito delle banche.

Le strategie
Purtroppo la legge è stata promulgata. Si sarebbe dovuto agire prima, se è vero che già all'inizio del 2009 - come denunciammo nel nostro Manifesto per l'università pubblica (DeriveApprodi, 2008) - era evidente il disegno del governo e i pericoli che ne discendevano. Sarebbe comunque sbagliato pensare che la partita sia chiusa e perduta. Cosa si può fare adesso? Proviamo ad individuare alcune strategie sinergiche tra loro:
1 - impugnare tutti i provvedimenti amministrativi ritenuti lesivi del diritto allo studio e contrari all'autonomia della ricerca scientifica dinanzi alle magistrature amministrative, sollevare in via incidentale le questioni di legittimità costituzionalità sui diversi profili della legge;
2 - elaborare e presentare, al più presto, anche come legge di iniziativa popolare, un progetto fondato realmente sul rilancio della ricerca scientifica e sul ruolo pubblico dell'Università;
3 - elaborare una strategia capace di tenere alto l'interesse da parte di tutta la cittadinanza attiva, con l'obiettivo di abrogare la legge Gelmini, valutando la possibilità di seguire la via referendaria;
4 - presidiare i processi di elaborazione degli statuti dei singoli atenei;
5 - monitorare l'elaborazione dei decreti delegati e dei decreti attuativi.
Si tratta di strategie da porre in atto se si vuole che i cittadini si riapproprino di beni comuni quali la ricerca, l'insegnamento, il diritto allo studio.
        Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli, Alfio Mastropaolo

L'incerto futuro degli asili nido in Italia

da sito  temi.repubblica.it/micromega-online/lincerto-futuro-degli-asili-nido
 
Gli asili nido richiedono al bilancio pubblico uno sforzo marginale e producono effetti positivi su aspetti decisivi per il futuro del Paese. Ma l'Italia è ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. E le cose rischiano perfino di peggiorare nell'immediato futuro.

di Cristiano Gori, Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2011

Gli asili nido italiani stanno per cominciare una nuova, inattesa, stagione. La realtà dei servizi socio-educativi rivolti ai bambini sotto i tre anni si appresta, infatti, a trasformarsi. Da oltre vent'anni gli interventi pubblici sono finalizzati a incrementarne l'offerta ed elevarne la qualità e ampi passi in avanti sono stati effettivamente compiuti.
Per rispondere alle esigenze delle famiglie, però, il sistema dovrebbe crescere ancora, ma ciò non sarà possibile. Nel prossimo futuro gli obiettivi potrebbero cambiare: dallo sviluppo alla difesa dell'esistente.
Nell'ultimo decennio l'offerta è stata ampliata senza porre le basi per il suo mantenimento nel tempo. Tra il 2000 e il 2009, i posti nei nidi a finanziamento pubblico sono cresciuti di oltre il 60% (da 110mila a 180mila). L'estensione della ricettività non è stata accompagnata, però, dall'introduzione di modalità di finanziamento adeguate a sostenere i costi della gestione ordinaria. Detto altrimenti, lo sforzo teso ad aprire nuovi servizi è stato grande mentre minore è risultato quello finalizzato a costruire le condizioni per mantenerli nel tempo.
L'eredità del decennio s'intreccia con le vicende più recenti. Le scelte di finanza pubblica degli ultimi anni – in particolare le manovre estive del 2008 e del 2010 – si sono rivelate particolarmente penalizzanti per i comuni, cioè i principali finanziatori degli asili. Le decisioni prese dallo stato nei loro confronti presentano, infatti, alcune peculiarità, che le differenziano dagli altri interventi compiuti durante le crisi economica.
Da un lato tali decisioni non paiono interamente motivabili con essa perché in parte assunte prima della sua esplosione, dall'altro le municipalità sono state colpite più degli altri livelli di governo (stato e regioni).
Per finire, con il 2011 scompare il «Piano straordinario per lo sviluppo dei servizi socio-educativi alla prima infanzia» (noto come «Piano nidi»), introdotto nel 2007 dal precedente governo.
Anche se gli stanziamenti erano stati sinora modesti, il piano rivestiva notevole importanza perché la sua introduzione aveva significato riconoscere la necessità di un sostegno dello stato ai comuni nel finanziamento dei nidi e aprire la strada a un percorso che avrebbe dovuto portare l'Italia al pari degli altri paesi europei.

I problemi in arrivo
Nel nuovo scenario, il sistema italiano dei servizi alla prima infanzia dovrà affrontare numerose criticità, che – con la variabilità dovuta ai differenti contesti locali – toccheranno l'intero paese. Tre saranno le principali, analizzate in una ricerca svolta con Valentina Ghetti e Katja Avanzini presso l'Istituto per la ricerca sociale (Irs).
Innanzitutto, sarà impossibile incrementare ulteriormente i posti pubblici e – in alcune realtà – si rischia di vederne la riduzione. Ciò è l'esito della somma tra le difficoltà dovute alla crescita senza basi dell'ultimo decennio e quelle prodotte dalle recenti decisioni del governo sui finanziamenti. Oggi, la ricettività complessiva del sistema riguarda circa il 25% dei bambini entro i tre anni mentre le famiglie che vorrebbero fruirne sono il 42 per cento.
Inoltre, c'è il pericolo di un abbassamento della qualità. La minore disponibilità di risorse potrebbe tradursi, nei territori, in azioni finalizzate al risparmio, quali l'incremento del numero di bambini per educatore, la minore qualificazione del personale e la riduzione dei suoi momenti di aggiornamento e supervisione. Si tende spesso a sottovalutare il valore della qualità mentre le ricerche dimostrano che riveste un ruolo centrale nel determinare gli effetti benefici dei nidi sullo sviluppo cognitivo e comportamentale dei bambini (si veda il recente studio di Del Boca e Pasqua per la Fondazione Agnelli, scaricabile da www.fga.it).
Infine, sorgeranno difficoltà per la classe media. È probabile che l'offerta di servizi a finanziamento privato continui ad aumentare e quella pubblica no. La domanda di posti rimarrà ben superiore all'offerta nel pubblico, che – per sua natura – quando non può soddisfare tutte le richieste assegna priorità alle situazioni di maggiore difficoltà economica e/o sociale. I servizi privati, dal canto loro, sono costosi e la diminuzione del reddito dovuta alla crisi ha reso difficoltoso accedervi a un numero crescente di famiglie. Si rischia così un quadro composto da servizi pubblici rivolti alle fasce più fragili, servizi privati per i più abbienti e, nel mezzo, un insieme sempre più esteso di famiglie non abbastanza povere da accedere al pubblico e non sufficientemente benestanti da pagarsi il privato.

Perché siamo in questa situazione? Le risposte sbagliate
Se si vuole discutere come affrontare il nuovo scenario, bisogna metterne a fuoco le cause, iniziando da alcune argomentazioni, dotate di un certo richiamo, che non sembrano condivisibili.
«I nidi costano troppo al bilancio pubblico». La spesa pubblica per gli asili nido è assai limitata, pari allo 0,15% del Pil rispetto, ad esempio, al 26,1% complessivamente dedicato al welfare. Si potrebbero rafforzare i servizi alla prima infanzia con un impatto marginale sul bilancio pubblico, producendo un significativo ritorno di consenso per il decisore responsabile.
«I nidi non servono». Si tratta di un'opinione diffusa più di quanto si pensi nell'elite politica nazionale e in vari circoli intellettuali. Invece, è scientificamente dimostrato che la presenza di nidi aiuta l'occupazione femminile. È pure dimostrato che la loro frequenza produce effetti positivi sullo sviluppo delle capacità di apprendimento e di relazione del bambino, effetti maggiori per chi proviene da famiglie svantaggiate e meno istruite.
«In Europa, i governi di destra abitualmente non promuovono i servizi alla prima infanzia». Ciò accadeva 20 anni fa, quando la destra riteneva che il bambino piccolo dovesse stare in famiglia (e la mamma non lavorare) e la sinistra che dovesse frequentare l'asilo. Da tempo, invece, negli altri paesi europei – come Germania e Gran Bretagna – i nidi sono considerati da tutti gli schieramenti un'infrastruttura sociale necessaria. In Italia, peraltro, gli sforzi della sinistra a favore dei nidi, per quanto superiori a quelli dei rivali, sono sempre stati ridotti.

Perché siamo in questa situazione? Le risposte giuste
Le cause principali risiedono nelle peculiarità del processo decisionale e del dibattito pubblico.
«Manca un forte gruppo di pressione a favore degli asili nido». In Italia i governi hanno abitualmente una ridotta capacità di prendere decisioni in modo autonomo e gruppi di pressione e lobbies – nell'industria come nel sociale – ne influenzano molto le scelte. A livello nazionale, nel welfare i gruppi di pressione realmente incisivi sono solo l'universo sindacale che si batte per chi il lavoro l'ha o l'ha avuto (occupati e pensionati) in forma stabile e protetta, e l'insieme di personalità e associazioni – il cui punto di riferimento è il Vaticano – impegnate sui temi cosiddetti "eticamente sensibili" (procreazione, configurazione giuridica della famiglia, stati vegetativi).
I soggetti, o gli interventi, che non possono contare su incisivi gruppi di pressione sono tradizionalmente sfavoriti dalle scelte della politica. È il caso di settori come la povertà o i servizi alla prima infanzia, nei quali non esiste una forte lobby di riferimento. Un'organizzazione con profilo nazionale che svolge azione di pressione per gli asili è il «Gruppo nazionale nidi infanzia» (www.grupponidiinfanzia.it), nato nel 1980. Si tratta di una rete di persone con una ridotta struttura organizzativa, il cui encomiabile sforzo non produce un impatto paragonabile a quello dei protagonisti già ricordati.
«Una coltre di fumo offusca la realtà». In Italia, la discussione pubblica sui nidi viene abitualmente affrontata nel dibattito su famiglia e ruolo della donna. Un dibattito peculiare – ad esempio, i benefici dell'asilo per il suo vero utente, il bambino, non sono mai considerati – e dai tratti ricorrenti.
I toni sono sovente concitati e i ragionamenti astratti, si discute il generico modello di società che si desidera e si trascurano gli interventi effettivamente realizzati; dunque, aspri confronti in merito all'utilità dei nidi per la società italiana e scarso interesse a capire, per esempio, se l'attuazione del piano nidi sia effettivamente servita alle famiglie in carne ed ossa. Manifestazioni recenti ne sono la Conferenza nazionale della famiglia organizzata dal governo in novembre e l'esteso confronto intorno al volume «L'Italia fatta in casa», di Alberto Alesina e Andrea Ichino (Mondadori, 2009).
Non stupisce, pertanto, che il nostro paese non abbia compiuto il passaggio realizzato nel resto d'Europa, cioè iniziare a considerare i servizi alla prima infanzia "semplicemente" un'infrastruttura necessaria e meritevole di sostegno bipartisan. In un simile dibattito, tra l'altro, si riduce molto lo spazio per la diffusione di alcune informazioni fattuali di base, quali i benefici sociali che gli asili producono, l'esigua spesa pubblica che comportano, e il fatto che nessuno intende "obbligare" le famiglie a utilizzarli bensì si vuole esclusivamente assicurare la possibilità di farlo a chi lo desidera.
Dalla battaglia ideologica all'infrastruttura sociale
I servizi alla prima infanzia richiedono al bilancio pubblico uno sforzo marginale e producono effetti positivi su aspetti decisivi per il futuro dell'Italia: la capacità di apprendimento delle nuove generazioni, l'occupazione femminile, le opportunità per chi proviene da contesti svantaggiati. Negli altri paesi europei il loro rafforzamento costituisce un obiettivo condiviso dai diversi schieramenti politici, di cui il governo centrale si è assunto la responsabilità. Da noi, se nulla cambierà, l'obiettivo dei prossimi anni sarà evitare di indietreggiare rispetto a oggi.
Esiste anche un'altra possibilità. Il 2011 potrebbe vedere la battaglia ideologica sulla famiglia prendersi un meritato riposo e gli sforzi convergere verso il concreto rafforzamento di un'utile infrastruttura sociale, cioè i nidi.
Si potrebbe partire dall'analisi dei quattro anni di piano nazionale, oggetto di approfondito monitoraggio da parte dell'amministrazione statale, mettendo in luce ciò che ha funzionato ed esaminando gli errori commessi così da non ripeterli. Si tratterebbe di valorizzare l'esperienza compiuta per aprire un confronto operativo su come procedere e giungere poi alla progettazione di un migliore intervento statale a supporto dei soggetti direttamente impegnati, a livello territoriale, nel sistema dei servizi.

(3 gennaio 2011)