venerdì 11 marzo 2011

IL DESIDERIO DEL SULTANO E L’ETOLOGIA DELLA POLITICA

MAURIZIO FERRARIS da La Repubblica dell’8 marzo 2011

Si potrebbe raccontare il tutto nella forma di una lettera persiana. C´è un sultano che organizza dei festini nelle proprie residenze, con canti, balli e pratiche sessuali che derivano secondo alcuni dai riti di un principe nordafricano, secondo altri da una barzelletta raccontata nei caravanserragli. A questi riti partecipano, insieme al sultano, il visir, un giannizzero e fanciulle provenienti dai più vari strati sociali. Infatti i riti sono rigorosamente interclassisti e sembra anzi che preludano a forme di promozione sociale attraverso la politica. È così che l´eterna fiaba si rinnova, arricchendosi fin quasi al manierismo di particolari da Mille e una notte, come nel caso della ladra venuta dal Marocco. E che viene presentata come una parente del Khedivè d´Egitto. Se però dalla finzione di Montesquieu o dalla favola di Shérazade si volesse entrare nell´attualità politica ed esprimere qualche giudizio, il rischio più concreto sarebbe di venir tacciati di moralismo, di incomprensione della vita e della sua bellezza da pianta grassa, e dunque conviene metter subito le mani avanti.
Certo, l´immoralità del sovrano è vecchia come il potere, e nelle feste di Arcore c´è molto di Tiberio a Capri, o di Commodo, che si era fatto installare un “lupanare in Palatio”. C´è anche molto delle vite di quei potenti novecenteschi che sono stati i tycoon del cinema, e poi della televisione. Nei riti che vengono narrati (e che suscitano in molti ammirazione e consenso) c´è infatti tantissimo immaginario televisivo, e si direbbe che realizzino il sogno di uno spettatore che attraversa lo schermo ed entra nel mondo delle meraviglie. Proprio qui risiede la singolarità del fenomeno. Nella politica del bunga bunga, del cucù e dello sberleffo abbiamo a che fare con un uso politico del desiderio molto moderno e spregiudicato, e la categoria più efficace per capire ciò che avviene è quella che Adorno ha chiamato “desublimazione repressiva”. Tra il principe e il popolo si stabilisce un patto: il principe permette al popolo di fare tutto quello che vuole, in materia fiscale e sessuale, e il popolo gli conferisce un mandato incondizionato. Soprattutto, tra il popolo e il principe si innesca un meccanismo di rispecchiamento: il principe è davvero, profondamente, uno del popolo. Al polo opposto, separati, persecutori, ascetici e noiosi ci sono i magistrati, lo Stato, quel che resta della terzietà e della trascendenza del potere e del diritto, a cui il principe si rivolta per comodità pratiche, mentre il popolo (che avrebbe tutto l´interesse a godere dei diritti che ha invece di sperare nella lotteria dei privilegi) lo segue e lo sostiene per solidarietà antropologica.
Da tutto questo possono emergere tre insegnamenti. Il primo riguarda il nesso tra la bestia e il sovrano, proprio quello indagato da Jacques Derrida nei suoi ultimi seminari. Il sovrano fa sfoggio di vigoria e di vitalità, e nella versione italiana, diversa in questo dalla versione americana dell´epoca di Bush, non vanta la propria prestanza come capo militare, ma come seduttore. Tipicamente, nel corso di una manifestazione elettorale del marzo 2009 il sovrano ha fatto una specie di scongiuro ai versi dell´inno nazionale “siam pronti alla morte”, e il 2 giugno del 2010, alla parata militare della Festa della Repubblica, ha guardato in modo ostentatamente ammirativo una crocerossina che sfilava. La dignità del potere legittimo si trasforma in un machismo primario, e a ben pensarci era già così con Mussolini, che però ha commesso l´errore fatale di portare in guerra un popolo che da lui aveva accettato tutto, comprese le leggi razziali.
Il secondo riguarda la realizzazione delle utopie. Come il sapere assoluto si è realizzato in modo perverso nella società della comunicazione, così tutti gli elementi del postmoderno, dalla scomparsa dei fatti nelle interpretazioni alla ironia (barzellette comprese) in politica sino appunto al desiderio giunto al potere si sono realizzati nel populismo. Nella fattispecie, il populista italiano, nello scherzare sull´inno nazionale e nell´ammirare la crocerossina realizza in forma plastica il “make love, not war”, e dimostra i limiti di quello slogan, così come delle teorizzazioni che, da Marcuse a Deleuze, nel secolo scorso, avevano insistito sulla intrinseca valenza emancipativa del desiderio. Non è così semplice: il desiderio può certo essere liberazione, ma, altrettanto bene, dominio e prepotenza.
E qui veniamo al terzo insegnamento. Il mondo del populismo, soprattutto nella sua versione italiana che appare all´estero (più che in Italia, dove con il tempo sono prevalse l´assuefazione e l´acquiescenza) come essenzialmente comica e oscena, è un mondo che rischia di non essere preso sul serio. Invece ha ragioni profonde, che sanno coniugare l´arcaico e il modernissimo, e che spiegano la lunga durata del fenomeno. In particolare, il populismo italiano ha messo in scena un reality dove tutti sono uguali e intercambiabili (politici, persone di spettacolo e “pubblico a casa”) perché nessuno conta niente, e chi non è d´accordo è accusato di supponenza e frigidità intellettuale.
Ma scandalizzarsi per il lupanare in Palatio non è togliere spazio alla vita e al desiderio, bensì riconoscere l´inaccettabilità di un sistema di sopraffazione. Perché sarà anche vero che dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori, ma questa è una legge di natura, vige nelle serre e negli allevamenti, non nei parlamenti. Se però vogliamo tornare dall´etologia alla politica, e dalla natura alla storia, credo che questa esuberanza di vita ci riservi non solo tristi insegnamenti, ma anche una speranza. Questa: come l´aver sperimentato la guerra sembra aver definitivamente vaccinato gli italiani dalla retorica della bella morte, che non ha niente a che fare con il coraggio, così quello che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe vaccinarci dalla retorica della bella vita, che non ha niente a che fare con il desiderio, ma molto con l´impotenza e l´illusione.

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