di GIANFRANCO VIESTI da sito Gazzetta del Mezzogiorno del 5.9.2010
L’anno accademico 2010-2011 potrebbe segnare la fine dell’università pubblica in Italia così come la conosciamo da decenni. Questo dipende da decisioni già prese dal Governo.
In primo luogo, la straordinaria riduzione del fondo di finanziamento ordinario nazionale, che rappresenta la quota più importante delle entrate degli atenei. Il taglio, deciso prima dello scoppio della crisi economica, porta l’ammontare del fondo da 7,2 miliardi del 2010 a meno di 6 del 2011 (circa lo stesso sarà nel 2012). Si consideri che solo il personale costa alle università italiane 6,5 miliardi.
Questo comporterà in molti casi, e non solo al Sud, l’impossibilità di far fronte alle spese correnti: le università “staccheranno la corrente”. Nei casi migliori, comporterà comunque il blocco totale del turn-over, una riduzione dei docenti, un peggioramento della didattica e una drastica contrazione dei servizi agli studenti. Questo definanziamento potrebbe essere aggravato per molti atenei, se anche nel 2010 si procederà con i criteri cosiddetti di “premialità” per ripartire parte dei tagli fra gli atenei (siamo a settembre,ma ancora non si sa). I criteri definiti l’estate scorsa, e validi per il 2009 sono risibili: le regole sono state costruite dopo aver ben studiato i numeri, in modo tale da premiare non chi “si comporta meglio”, ma le sedi più piccole del Nord con più facoltà scientifiche.
Le risorse statali per le borse di studio sono state ridotte dai 246 milioni del 2009 ai 99 del 2010 e scenderanno a 76 nel 2011. Già in passato il 40% degli studenti meritevoli di borsa nel Mezzogiorno non riuscivano ad ottenerla per carenza di fondi; l’80%, pur meritevoli, non riuscivano ad avere un alloggio. Quote che non potranno che crescere. E si consideri che tra il 2001 e il 2007 le tasse universitarie in Italia sono cresciute del 53%. La recente manovra ha operato poi un forte taglio degli stipendi ai docenti, bloccando le anzianità (senza restituzione); per come è stato costruito, penalizza moltissimo i ricercatori più giovani, già con retribuzioni basse. Infine, il disegno di legge in discussione in Parlamento – che ben poco potrà fare per l’Università nel quadro che è stato ricordato – crea incertezze notevoli tanto per i sistemi di governo degli atenei quanto per il futuro professionale degli attuali ricercatori.
Il sistema universitario italiano ha molti problemi. Come recita il titolo di un bel libro recente, l’università italiana è “malata e denigrata”. E’ senz’altro necessario razionalizzare il suo funzionamento, introdurre molto di più merito e valutazione, combattere le sue derive peggiori, nepotismi, particolarismi. Molto sta già cambiando, anche da noi; la “federazione” fra le università di Puglia, Basilicata e Molise, annunciata l’altro ieri, è un’ottima iniziativa. Ma l’insieme delle misure del governo, più che riformarlo, sembra decretarne la fine: ispirato da un’idea di sistema universitario pubblico molto più piccolo, con molto più spazio per il privato; diviso fra atenei di serie A (al Nord), con più risorse, didattica e ricerca e atenei di serie B (al Sud) che cercano di sopravvivere. In tutto il mondo l’università è uno dei motori più importanti dello sviluppo economico; crea la materia prima della crescita: giovani preparati. Negli ultimi anni, particolarmente al Sud, sono stati fatti straordinari passi in avanti. Il numero di laureati è cresciuto moltissimo. Ormai al Sud, e in Italia, rispetto alla popolazione giovanile, è nella media europea. La più grande differenza fra il Mezzogiorno di oggi e quello del passato sta proprio in questo: nella diversa scolarità dei giovani. Questa è la grande chance per il suo futuro. Da sola non è una condizione sufficiente per lo sviluppo dell’economia. Ma è necessaria.
Questo processo è a rischio. Molte università italiane potrebbero chiudere fra pochi mesi. Se ci sarà un’elemosina dell’ultimora da parte del Governo magari non chiuderanno, ma sopravviveranno senza servizi, borse e alloggi per gli studenti, ma con una didattica fortemente ridotta, senza ricerca. Questo accrescerà ancora i flussi di studenti verso le università più ricche; riducendo le iscrizioni, renderà ancora più difficile la vita per quelle più povere.
In questi giorni, le autorità accademiche sono alle prese con scelte non semplici e responsabilità gravi: è possibile, in questa situazione, avviare regolarmente l’anno accademico? Probabilmente no. Ma allora che succede? Ma non è un problema solo degli universitari. Dovrebbe essere al primo posto dell’agenda della politica nazionale. E locale; al centro dell’attenzione dei Presidenti Vendola e De Filippo e dei Consigli Regionali, così come dei sindaci e degli enti locali, coinvolgendo tutti i cittadini. Che futuro può avere Bari, Sindaco Emiliano, se deperiscono le sue università? E’ il caso di interessarcene, se siamo ancora in tempo.
L’anno accademico 2010-2011 potrebbe segnare la fine dell’università pubblica in Italia così come la conosciamo da decenni. Questo dipende da decisioni già prese dal Governo.
In primo luogo, la straordinaria riduzione del fondo di finanziamento ordinario nazionale, che rappresenta la quota più importante delle entrate degli atenei. Il taglio, deciso prima dello scoppio della crisi economica, porta l’ammontare del fondo da 7,2 miliardi del 2010 a meno di 6 del 2011 (circa lo stesso sarà nel 2012). Si consideri che solo il personale costa alle università italiane 6,5 miliardi.
Questo comporterà in molti casi, e non solo al Sud, l’impossibilità di far fronte alle spese correnti: le università “staccheranno la corrente”. Nei casi migliori, comporterà comunque il blocco totale del turn-over, una riduzione dei docenti, un peggioramento della didattica e una drastica contrazione dei servizi agli studenti. Questo definanziamento potrebbe essere aggravato per molti atenei, se anche nel 2010 si procederà con i criteri cosiddetti di “premialità” per ripartire parte dei tagli fra gli atenei (siamo a settembre,ma ancora non si sa). I criteri definiti l’estate scorsa, e validi per il 2009 sono risibili: le regole sono state costruite dopo aver ben studiato i numeri, in modo tale da premiare non chi “si comporta meglio”, ma le sedi più piccole del Nord con più facoltà scientifiche.
Le risorse statali per le borse di studio sono state ridotte dai 246 milioni del 2009 ai 99 del 2010 e scenderanno a 76 nel 2011. Già in passato il 40% degli studenti meritevoli di borsa nel Mezzogiorno non riuscivano ad ottenerla per carenza di fondi; l’80%, pur meritevoli, non riuscivano ad avere un alloggio. Quote che non potranno che crescere. E si consideri che tra il 2001 e il 2007 le tasse universitarie in Italia sono cresciute del 53%. La recente manovra ha operato poi un forte taglio degli stipendi ai docenti, bloccando le anzianità (senza restituzione); per come è stato costruito, penalizza moltissimo i ricercatori più giovani, già con retribuzioni basse. Infine, il disegno di legge in discussione in Parlamento – che ben poco potrà fare per l’Università nel quadro che è stato ricordato – crea incertezze notevoli tanto per i sistemi di governo degli atenei quanto per il futuro professionale degli attuali ricercatori.
Il sistema universitario italiano ha molti problemi. Come recita il titolo di un bel libro recente, l’università italiana è “malata e denigrata”. E’ senz’altro necessario razionalizzare il suo funzionamento, introdurre molto di più merito e valutazione, combattere le sue derive peggiori, nepotismi, particolarismi. Molto sta già cambiando, anche da noi; la “federazione” fra le università di Puglia, Basilicata e Molise, annunciata l’altro ieri, è un’ottima iniziativa. Ma l’insieme delle misure del governo, più che riformarlo, sembra decretarne la fine: ispirato da un’idea di sistema universitario pubblico molto più piccolo, con molto più spazio per il privato; diviso fra atenei di serie A (al Nord), con più risorse, didattica e ricerca e atenei di serie B (al Sud) che cercano di sopravvivere. In tutto il mondo l’università è uno dei motori più importanti dello sviluppo economico; crea la materia prima della crescita: giovani preparati. Negli ultimi anni, particolarmente al Sud, sono stati fatti straordinari passi in avanti. Il numero di laureati è cresciuto moltissimo. Ormai al Sud, e in Italia, rispetto alla popolazione giovanile, è nella media europea. La più grande differenza fra il Mezzogiorno di oggi e quello del passato sta proprio in questo: nella diversa scolarità dei giovani. Questa è la grande chance per il suo futuro. Da sola non è una condizione sufficiente per lo sviluppo dell’economia. Ma è necessaria.
Questo processo è a rischio. Molte università italiane potrebbero chiudere fra pochi mesi. Se ci sarà un’elemosina dell’ultimora da parte del Governo magari non chiuderanno, ma sopravviveranno senza servizi, borse e alloggi per gli studenti, ma con una didattica fortemente ridotta, senza ricerca. Questo accrescerà ancora i flussi di studenti verso le università più ricche; riducendo le iscrizioni, renderà ancora più difficile la vita per quelle più povere.
In questi giorni, le autorità accademiche sono alle prese con scelte non semplici e responsabilità gravi: è possibile, in questa situazione, avviare regolarmente l’anno accademico? Probabilmente no. Ma allora che succede? Ma non è un problema solo degli universitari. Dovrebbe essere al primo posto dell’agenda della politica nazionale. E locale; al centro dell’attenzione dei Presidenti Vendola e De Filippo e dei Consigli Regionali, così come dei sindaci e degli enti locali, coinvolgendo tutti i cittadini. Che futuro può avere Bari, Sindaco Emiliano, se deperiscono le sue università? E’ il caso di interessarcene, se siamo ancora in tempo.
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