giovedì 30 giugno 2011

36 Università a rischio commissariamento per dissesto finanziario

Bindi batte gelmini
da sito www.europaquotidiano.it del 30.06.2011


In questi giorni ben 36 universita su 66 hanno avuto l’amara sorpresa di un possibile commissariamento a causa del dissesto finanziario determinato dalla legge numero 10 del 26 febbraio 2011 che, eliminando lo “scorporo virtuale” di un terzo della spesa per il personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, ha determinato lo sfondamento del vincolo del 90 per cento per le spese di personale del Fondo di finanziamento ordinario.
Purtroppo la cosiddetta riforma universitaria Gelmini non offre soluzioni a questo drammatico problema, poiché si limita a rinviare alla normativa vigente (lettera c articolo 2 e il comma 13 articolo 6 legge 30/12/2010, n. 240.) Il legislatore ha dimenticato che esiste una normativa, il decreto Bindi (decreto legislativo 517/99 articolo 6 legge 30/11/1998, n.
419) che costituisce una risposta realistica, praticabile e fattibile alle esigenze d’integrazione tra assistenza, didattica e ricerca, capace di eliminare una delle più gravi disfunzioni del servizio sanitario, che determina anche squilibri nei bilanci delle università dotate di una facoltà di medicina.
Dove è stato correttamente applicato il decreto Bindi ha dato buoni risultati e, pertanto si può affermare che consente di indicare i parametri per l’individuazione delle attività e delle strutture assistenziali complesse, funzionali alle esigenze di didattica e di ricerca dei corsi di laurea della facoltà di medicina e chirurgia, delle aziende ospedaliero/universitarie.
Il decreto consente poi di garantire l’adozione, all’interno dei Protocolli Università/Regione, modelli comuni di organizzazione e funzionamento delle aziende ospedaliero-universitarie, più rispondenti alle esigenze d’integrazione, pur preservandone la flessibilità e la possibilità di sviluppare soluzioni alle problematiche connesse ai rapporti tra Università e Servizio sanitario nazionale, mettendo a frutto l’interscambio di esperienze.
Infine, permette di definire un sistema per verificare il beneficio complessivo attribuito al personale medico e sanitario non medico in termini di “indennità di esclusività” (comma 7 articolo 5 decreto legislativo 517/99 e successive modifiche) e gli effettivi benefici (assistenziali ed economici) ricavati dall’azienda ospedaliero/universitaria.
In conclusione, alla duplice perversità gestionale (bilanci regionali e degli atenei) delle aziende ospedaliero/universitarie, il decreto Bindi offre una soluzione realistica, praticabile e fattibile, che può evitare il commissariamento di ben 36 università e, nel contempo, migliorare la qualità del sistema sanitario. 

mercoledì 29 giugno 2011

L'Ateneo di Bologna fa sparire ventitrè facoltà: al loro posto undici scuole

da www.ilrestodelcarlino.it

Bologna, 29 giugno 2011 - UNDICI scuole al posto delle ventitre facoltà. È la linea su cui è orientata l’Alma Mater che con una commissione creata ad hoc più di un anno fa è chiamata a ridisegnare lo Statuto che governa l’Ateneo. La rivoluzione è prevista dalla legge Gelmini che stabilisce anche i limiti entro cui agire: si possono formare massimo 12 scuole. E così dalle 23 facoltà dell’Alma Mater si passerà a 11. Il dibattito sul numero è stato acceso. Due le ipotesi al vaglio della commissione Statuto: accorpare le attuali facoltà in cinque scuole o in un numero più corposo, come quello verso cui si sta muovendo l’Ateneo. Il rettore Ivano Dionigi ha tracciato la rotta da seguire nel corso di una seduta congiunta tra il senato accademico e la commissione statuto che è composta da 15 membri.

L’IDEA di fondo, pur nel processo che modificherà il volto dell’Ateneo, è mantenere l’identità e la riconoscibilità delle facoltà già esistenti. La regola da seguire, quindi, resta quella di rendere le scuole riconoscibili agli occhi di studenti presenti e futuri. E non è esluso che per farlo si scelga anche di mantenere la vecchia denominazione di ‘facoltà’. Le undici nuove entità, almeno secondo l’impianto costruito fino ad ora, dovrebbero essere il frutto dei seguenti accorpamenti: Psicologia con Scienze della Formazione; Ingeneria con Ingegneria seconda facoltà (la Romagna) e con Architettura; Medicina manterrà una scuola tutta sua; Scienze Statistiche andrà con Economia di Bologna, Forlì e Rimini; Agraria con Medicina Veterinaria; Giurisprudenza resta sola; Farmacia con un pezzo delle Scienze (probabilmente il corso di laurea in Biotecniologie e quello in Scienze biologiche); Lettere con Conservazione dei Beni Culturali; Lingue con la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori. E ancora Scienze politiche di Bologna con la sede di Forlì e una scuola con quello che resta delle Scienze, come Matematica, Informatica, Fisica e Astronomia. Sono ancora da definire le sorti della facoltà di Scienze Motorie. Come non sono da escludere cambiamenti tra le fusioni.
L’IMPIANTO è stato presentato ai presidi delle ventitre facoltà che vivranno il cambiamento in prima persona. Il nuovo numero di scuole e dipartimenti, comunque, non sarà contenuto nel nuovo Statuto che l’Ateneo si appresta a varare entro la fine di luglio. Il documento che ridefinisce la governance d’Ateneo, infatti, in tema di scuole e dipartimenti, conterrà solo delle linee di indirizzo, come previsto dalla riforma Gelmini.

Il rettore Dionigi lo ha definito «un documento fondativo, che dovrà guardare ai prossimi decenni avendo come bussola l’interesse degli studenti e della società», ma intorno alla stesura dello Statuto non sono mancate e non mancano accese polemiche. Una prima bozza, rispetto alla quale sono stati presentati una quarantina di documenti che contengono emendamenti proposti dalle varie componenti d’Ateneo, e stata etichettata dall’Intersindacale e dalle Rsu «antidemocratica». Motivo per cui gli stessi hanno indetto un referendum, che si sta svolgendo in questi giorni, in cui chiedono a docenti, ricercatori e personale tecnico e amministrativo di pronunciarsi su quattro quesiti legati proprio al contenuto della bozza.
LA PARTITA sul numero delle scuole dovrebbe chiudersi dopo l’estate, ma la rivoluzione in corso non riguarda solo le facoltà. Nel mirino c’è anche il futuro dei dipartimenti che dovranno rispondere ai nuovi requisiti previsti dalla legge. Primo fra tutti, il numero minimo di docenti e ricercatori: 40 per la Gelmini. Gli accorpamenti, infatti, riguardano anche queste strutture, che diventeranno una sorta di nuova anima dell’Ateneo: il luogo della didattica e della ricerca. Da quelli esistenti, una settantina, si arriverà ad averne 33.

Il processo è già iniziato. È il caso del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica: il primo accorpamento tra dipartimenti realizzato a metà febbraio in area umanistica. È nato dalla fusione tra le strutture dedicate alla Filologia classica e medievale da un lato e all’Italianistica dall’altra. Ma prima ancora c’era stata la creazione di una nuova struttura dipartimentale di Medicina veterinaria. È nata dall’aggregazione tra dipartimento Clinico veterinario, il dipartimento di Morfofisiologia veterinaria e produzioni animali e il dipartimento di Sanità pubblica veterinaria e patologia animale e della Sezione di biochimica veterinaria del dipartimento di Biochimica ‘Moruzzi’.
di EMANUELA ASTOLFI

domenica 26 giugno 2011

Vuoi studiare? PEDALA !!!

Nella prima scuola a pedali la luce si accende con i muscoli
Al via il progetto: un'ora alla cyclette per illuminare un istituto tecnico a Roma
GIANLUCA NICOLETTI su sito www3.lastampa.it del 6.6.2011

E verrà il giorno in cui ogni giovane, pedalando, si renderà conto di quanto sia faticoso accumulare energia. Solo quando avrà pigiato sui pedali della sua cyclette-accumulatore per un’ora, gli saranno accreditati i suoi sudati 100 watt. A quel punto forse gli passerà la voglia di non sprecarla e inizierà a farne un uso intelligente.

Questa è la chiave su cui si fonda il progetto didattico dell’architetto Oscar Santilli, vulcanico insegnante dell’Istituto Tecnico G. Vallauri di Roma, ma soprattutto inventore della Scuola a pedali originale sistema di apprendimento del valore dell’energia attraverso la produzione muscolare della medesima.
Il meccanismo di apprendimento inventato dal professor Santilli un po’ ricorda quelle vecchie biciclette a dinamo che, in tempo di guerre passate, erano usate per alimentare la lampadina dei rifugi antiaerei e, in verità, sembra puntare molto sul condizionamento fisico per favorire una coscienza ambientale. I ragazzi abituati allo spreco incondizionato di energia, dovrebbero rieducarsi all’equo consumo rendendosi conto, a spese dei propri polpacci, di quanto costi produrre elettricità.

Gli studenti dell’Istituto Vallauri assisteranno in questi giorni all’inaugurazione della sala dell’energia, che la loro scuola ha allestito aiutandosi con fondi della Provincia. Un tempio dell’eco-pedalata dove sono state attrezzate 18 postazioni ciclo-dinamiche, capaci di produrre energia elettrica grazie a delle dinamo a propulsione umana. Secondo l’attitudine, o il muscolo che si desidera, esercitare tanto per massimizzare lo sforzo, ognuno potrà scegliere se pedalare sulle bici da Spinning, o girare a mano delle manovelle.

Ogni umano fornitore di energia muscolare avrà una tessera magnetica su cui è caricato il proprio credito energetico. La quantità di energia che sarà capace di produrre con i propri muscoli sarà contabilizzata da una centralina, collegata a ogni postazione, che ricarica il conto personale. Gli studenti che avranno frequentato la sala dell’energia con profitto potranno elargire per il bene comune della classe, i watt pedalati saranno stati così sia prodotti che consumati in maniera virtuosa. Il premio previsto per i fornitori sarà al momento in ingressi al cinema, punti per downloading dalla rete e altri bonus gratificanti. Naturalmente la scuola spera che possano arrivare sponsor che siano disposti a sostenere il progetto.
La potenza didattica dell’iniziativa, nell’intenzione di chi l’ha sviluppata, è di stabilire un rapporto consapevole tra i dati cognitivi - i watt - e quelli esperienziali - le pedalate. Ogni studente diventa titolare delle quote dell’energia elettrica cedute alla rete, un creditore virtuoso al punto che una percentuale del suo credito sarà riservata ai suoi colleghi che, per qualunque tipo di disagio, non possono pedalare. Anche in questo successivo accorgimento si nota uno sforzo di regolare i comportamenti energetici individuali su quelle che possono essere le esigenze della collettività.

Ancor di più sono previste altre dinamiche di natura sociale e formativa, come ad esempio la figura dei donatori di watt, per cui anche i docenti, non docenti, genitori, ex studenti, dirigenti, potranno avere in dotazione una carta di credito energetica da caricare faticando, naturalmente nei limiti consentiti dalla loro età e forma fisica.

Il progetto di Oscar Santilli nasce da una sua precedente idea, che però si era fermata sul nascere perché forse non molto popolare. Nel 2007 assieme a un gruppo di suoi studenti, che allora frequentavano la 4f, sempre del Vallauri, Santilli aveva progettato una rivoluzionaria tv a pedali di avveniristico design. S’immaginava, con malriposto ottimismo, che il training sul televisore a pedali avrebbe indotto l’abbonato in prima fila al seguente ragionamento: «Se per far funzionare la tv devo faticare tanto, quando la guardo, pretendo programmi che mi diano soddisfazione!».

Insomma una rieducazione estetica forzata, forse destinata a produrre una maggiore responsabilità critica verso il prodotto televisivo... In teoria anche quella era un’ottima idea, ma chissà perché nessuno si sognò di commercializzarla.

COME FUNZIONA
La sala
Nella sala dell’energia ci sono varie postazioni a propulsione umana. Le dinamo si azionano con spin-bike, ma anche a manovella o mediante dei rulli per l’allenamento al coperto.
La postazione
Ogni studente ne ha una. Viene assegnata elettronicamente tramite la tessera personalizzata con il proprio nome e numero di serie.
L’energia
Viene contabilizzata grazie a una centralina collegata alle diverse postazioni. A fine sessione a ciascuno sarà caricato un «credito energetico» sul suo conto personale.

Aperto in Europa il primo tunnel solare ferroviario

di Carlo Lavalle su sito www3.lastampa.it del 9.6.2011

 

Un tunnel a pannelli solari lungo tre chilometri in grado di fornire energia pulita per treni e stazioni. E' stato realizzato e aperto in Belgio nel tratto della linea ferroviaria ad alta velocità che collega la città di Anversa ad Amsterdam.

Il progetto, primo nel suo genere in Europa, è nato con lo scopo di costituire una barriera di protezione per i mezzi ferroviari in caso di caduta alberi nel corso del tragitto. La ferrovia che attraversa il territorio belga passa vicino ad una antica foresta e il completamento della galleria ha evitato anche la necessità di ricorrere per motivi di sicurezza ad una inopportuna quanto dannosa deforestazione.

L'opera, giunta alla sua fase esecutiva, rappresenta il risultato di una collaborazione tra Enfinity, società specializzata nello sviluppo di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, Infrabel, gestore dell'infrastruttura ferroviaria belga, i comuni di Brasschaat e Schoten e Solar Power Systems, azienda attiva nel comparto solare.

Per ricoprire la parte superiore del tunnel è stato necessario installare la bellezza di 16 mila pannelli solari, pari ad una superficie di 50.000 m2, area grande quanto otto campi di calcio.

Si stima che l'impianto sia in grado di generare più o meno 3,3 MWh di elettricità all'anno, equivalenti al consumo medio annuale di energia elettrica di quasi 1.000 famiglie. L'elettricità prodotta è destinata a provvedere al normale funzionamento di segnaletica, illuminazione e riscaldamento delle stazioni, alimentando allo stesso tempo la corsa delle vetture.

In prospettiva, 4.000 treni ogni anno – corrispondente ad una giornata di intenso traffico su rotaia – saranno in grado di viaggiare grazie al sistema di rifornimento ad energia solare, fonte che sembra ricevere una sempre maggiore attenzione come mezzo per diminuire l'impronta di carbonio del settore dei trasporti ferroviari.

Per parte sua il tunnel solare consentirà un beneficio in termini di minor inquinamento con una una riduzione prevista delle emissioni di CO2 nell'atmosfera dell'ordine di 2.400 tonnellate annue, oltre 47.000 tonnellate risparmiate in due decenni.

martedì 21 giugno 2011

Prime note per una biografia del Rettore riformatore.

di Franco Piperno sul quotidiano della Calabria del 17.06.2011

“ Chi sa fa e chi non sa insegna”
epitaffio sulla tomba del prof. Pataturk.

I) Latorre prima della Gelmini.

Un fatto è certo, bisogna riconoscerlo,Il prof. Giovanni Latorre, rettore da oltre un dodicennio dell’UNICAL, una sua idea dell’Università ce l’ha, e da tempo; fin dall’inizio, dal primo mandato : una sorta d’intuizione anticipatrice in risonanza con il canone berlusconiano che si andava affermando, proprio in quegli anni, nell’ideologia pubblica del nostro paese.

L’idea del Rettore,anche aiutato – o limitato — dai saperi tecnici che coltiva, è quella che l’università vada governata quasi fosse una azienda, dove gli aspetti contabili-renumerativi prevalgono sui fini formativi, e la gerarchia accademica si modella su quella aziendale; una traiettoria, sia detto per inciso, già descritta nel settore sanitario dove, e non da ora, operano delle Aziende, con risultati che non occorre commentare perché ognuno può apprezzare per diretta esperienza.

Va da sé che per mandare ad effetto questo disegno occorreva conoscere e tener conto della microfisica del potere accademico all’UNICAL, in modo da poter offrire una convergenza vantaggiosa alle “confraternite” che, a vario titolo, abitano l’università ed usano comporsi e scomporsi lungo confini mobili in funzione delle finalità, non sempre nobili, perseguite.

L’impresa di Latorre, non si presentava facile, non fosse che per quella rissosità viperina che caratterizza il mondo accademico. Ma ecco che la fortuna sorride e proprio al tempo di quel primo mandato, il Governo bi-partisan apre le porte dell’università e migliaia di docenti vengono assunti – per dare una idea alla fine del terzo, e non ultimo, mandato di Latorre, l’organico dei docenti UNICAL risultava triplicato.

La lunga permanenza del Rettore nel ruolo ha conferito uniformità ai criteri con i quali sono avvenute le assunzioni. Certo, si sono svolti regolari concorsi pubblici nazionali; ma pur nel rispetto delle procedure, si è trattato di un reclutamento, per cooptazione ed autopromozione locale, senza precedenti nella storia dell’università. In breve, si è trattato di concorsi dove, sistematicamente ,i vincitori erano già noti anni prima dello svolgimento delle prove.

E’ emerso , così, un diverso “ideal tipo” di docente che scimmiotta, farsescamente, il “researcher- professor” americano, più simile ad un manager in carriera che ad uno studioso immerso tra “le sudate carte”, più dedito alla ricerca di fondi per la propria confraternita che a trovare qualcosa che valga la pena trasmettere pubblicamente come “conoscenza comune”.

Ecco allora che si sono venute delineando, all’UNICAL, delle linee di individuazione delle confraternite che non sono propriamente sapienziali; e fin qui passi, non si può pretendere il sangue dalle rape; ma per la verità non sono neanche disciplinari o metodologiche o interpretative e neppure tematiche; insomma, non si tratta certo di “scuole di pensiero”, di cui, semmai, si sente, lancinante la mancanza; e neanche, più modestamente, di schieramenti, tendenze politico-culturali, ideologie come suol dirsi oggi. Niente di tutto questo,perché all’UNICAL l’ideologia, dai professori, è stata buttata via, da tempo, come acqua sporca — ed insieme ad essa è finita nel tombino anche il bambino: l’idea stessa di università, l’autonomia della conoscenza.

Le confraternite o cosche universitarie si limitano a coltivare la passione triste che le tiene insieme, dopo averle materialmente costituite : disporre del tempo altrui in forza della natura burocratica della gerarchia accademica, dove l’esercizio del potere non abbisogna dell’autorevolezza che lo legittima, come accadeva ancora al tradizionale dispotismo baronale, quello che il ’68 ha demolito.

E poi, a cascata, ecco la fenomenologia adeguata ad una simile passione : consulenze general-generiche, master per tutti i gusti e tutte le tasche; campagne di marketing dispendiose per attirare studenti con una pubblicità fraudolenta che lascia intendere magnifiche sorti occupazionali nella scuola o nel giornalismo; corsi di aggiornamento per anziane maestre allibite; perizie generose di farmaci o di materiali edili o di composizione dei suoli; brevetti temerari, collaudi tolleranti, pubblicazioni inutili che neppure il coniuge legge; incursioni con paracadute nel mondo della rappresentanza politica; assunzioni, promozioni, assegni borse; questua di finanziamenti per improbabili ricerche, dalla mattonella bruzia ai protocolli per le “ scienze nove”, quelle turistiche ed investigative,per esempio – dove conta non già il programma di ricerca ma la capacità di relazione con il califfo comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo e perfino planetario : circola l’indiscrezione che un professore investigatore, impegnato a spargere legalità, abbia ottenuto fondi direttamente dal Segretario dell’ONU per una ricerca globale sui ricercatori che ricercano ricercati.

Insomma un gran traffico di meschinerie, tante raccomandazioni, piccole sopraffazioni chiamate complessivamente “governance”, un mare di riunioni inconcludenti, pochi soldi e ancor più poche occasioni di reddito per se ed i propri clienti.

Bisogna a questo punto, aggiungere, per evitare equivoci, che la condizione miserabile nella quale trascorre la vita il docente UNICAL non è dovuta alla famosa arretratezza meridionale né alla consueta ‘ndrangheta e neanche ai meriti del Rettore. Piuttosto si colloca ben dentro la dimensione iper-moderna, europea; essa è infatti, a ben vedere, il risultato locale della strategia, avviata già da tempo,degli euro burocrati che da una parte consegna al mercato l’istituzione universitaria, pubblica o privata che sia; e dall’altra elabora piani pluriennali, alla sovietica, dove la ricerca fondamentale è ancillare a quelle sue stesse applicazioni tecniche che sono renumerative per il capitale investito.

La disgregazione intellettuale è di tale portata che, quasi fossero scialuppe di salvataggio, non pochi docenti si arrampicano, nottetempo, su nuove e vecchie Logge, si legano all’Opus Dei,aderiscono ad organizzazioni cattoliche fondamentaliste; e v’è perfino un ricercatore transdisciplinare che è passato dalle investigazioni sulla vile meccanica alla ricerca sui miracoli di Natuzza da Paravati, una veggente locale che attende ancora un Papa che la faccia Santa.

Del resto, non occorre esser né massone né professore per aver contezza del “non- luogo” che è divenuta l’UNICAL, nata come utopia e finita come distopia. Basteranno qui alcune immagini. Il Campus è un immenso parcheggio per decine di migliaia di auto di docenti e discenti, di cilindrata non proprio modesta, che nelle ore di uscita e d’entrata s’intasano nel traffico come se si fosse non ad Arcavacata ma davanti le officine Mirafiori, a Torino, negli anni settanta– tutto questo malgrado che, per dirne solo una, quasi metà degli studenti immatricolati siano esentati dalle tasse in ragione della loro condizione, debitamente certificata, di “bisognosi”.

Ancora, Il Campus, animato durante il giorno dalla anomia della folla, diventa letteralmente desolato al calar del Sole, quando i negozi dei pubblicani chiudono; e, prescindendo dalle infrequenti iniziative delle associazioni degli studenti, assume l’aura di spettrale solitudine, irreale, quasi fosse un quadro di de Chirico. La Biblioteca, poi, sembra gestita dalla”Opera nomadi”: nei cinque giorni e mezzo nei quali è aperta chiude al tramonto, giusto quando cessano le lezioni e gli studenti,almeno quelli tra loro che sono anche studiosi, avrebbero così occasione di frequentarla.

Non mancano poi i centri d’eccellenza così sobriamente mimetizzati nel paesaggio che non ti accorgeresti della loro presenza e ancor meno dei loro successi se non fosse per i cartelli segnaletici.

E che dire dell’incubatore d’imprese, la chiave di volta del disegno rettorale per assicurare che quello spirito imprenditoriale, inoculato in migliaia di ingenui laureati in “scienze manageriali”, abbia il futuro che merita; incubatore la cui “ efficienza ed efficacia”, per dirla con la lingua del Magnifico, è già attestata dalla esperienza dell’ultimo biennio : ogni cento imprese incubate, con i batteri professorali, ne sopravvivono solo due – verrebbe da dire, se non suonasse inconsapevolmente denigratorio, che più che ” incubatore” dovremmo propriamente chiamarlo “sterminatore”.

Vi sono poi gli aspetti più propriamente accademici, quelli di medio-periodo, relativi alla trasmissione pubblica del sapere; ad esempio,la scuola regionale — elementare, media e superiore – registra ormai la presenza massiccia di laureati UNICAL con effetti sulla qualità del servizio che sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.



II) Latorre all’epoca della Gelmini.

Questo era lo stato dell’arte ad Arcavacata nella prima decade del terzo millennio;e va da sé che apparisse urgente recuperare il potere di autogoverno della comunità universitaria, in primis la discussione, l’ analisi collettiva e pubblica da parte di studenti e docenti per valutare i risultati conseguiti dalla esperienza UNICAL, quasi quarantennale, e correggerne le storture; ma l’autorità accademica ha ritenuto una inutile perdita di tempo la convocazione dell’assemblea d’Ateneo e perfino il dibattito nei consigli di facoltà.

Quando ecco che,sul venire a fine del terzo mandato del prof.Latorre, il destino ha voluto che arrivasse la madre di tutte le riforme, quella più autenticamente berlusconiana, la Riforma Gelmini, di epocale inconsistenza.

La Gelmini garantisce a Latorre una sorta di quarto mandato, senza passare attraverso il voto del corpo accademico; inoltre gli vengono conferiti poteri speciali per procedere alla ristrutturazione dell’UNICAL e alla formulazione di un nuovo statuto—che è un po’ come trovare una soluzione che è peggio del problema che pure dovrebbe risolvere.

Così il Rettore, ancora una volta costretto, potremmo dire, ad esercitare il potere non si sottrae al dovere; e, con una certa solerzia , indice una Assemblea d’Ateneo dove espone la sua incondizionata adesione ai criteri della riforma ed il programma di ristrutturazione dell’ateneo.

Per la verità, l’assemblea delude il rettore; ad appoggiarlo solo i presidi, tanto quelli ormai estenuati in avanzata estinzione quanto quei due ruspanti, che da tempo, posseduti dalla voluttà di succedergli, lo parassitano e tramano scambiandosi reciproci sgambetti — insomma, Stanlio e Olio come affettuosamente li ha sopranominati lo stesso rettore.

Docenti e studenti invece, piuttosto che esser grati al prof. Latorre per lo sforzo di pensiero aziendale, criticano la proposta come culturalmente rachitica ed il metodo ritenuto istericamente autoritario; ed un gruppo di studenti finisce con l’insolentire il Magnifico – il che è sempre deprecabile ma qualche volta comprensibile.

A questo punto il rettore realizza che non può contare sul consenso della comunità universitaria e decide di procedere per decreto. Nomina così una Commissione per la redazione del nuovo statuto dove i soli che risultino davvero rappresentati sono il rettore stesso e Stanlio e Olio, I dioscuri come li chiamano rispettosamente coloro che non godono della loro protezione.

La Commissione ha lasciato cadere ogni riflessione sull’alternativa tra dipartimenti disciplinari e tematici, sulla qualità didattica dei corsi, sul rapporto coi luoghi– le città rurali della Calabria e la loro sovranità–, sulla corresponsabilità degli studenti nell’’autogoverno dell’Ateneo; insomma ha evitato di discutere per andare subito al sodo : trovare il “numero magico” che assicuri la gestione aziendale per il rettore residuale e per il successore, fosse Stanlio, onesto “bon vivant” o fosse Olio, intelligenza viscida che fa a meno dell’onesta.

Così, quasi subito, il travaglio dei commissari, grazie all’arte maieutica del rettore-presidente, ha individuati quattro numeri : il cinquanta, il ventuno, il dodici ed il dieci; cinquanta la soglia minima di docenti per istituire un dipartimento, ventuno i membri del Senato Accademico, dodici il numero totale di dipartimenti, dieci i componenti il Consiglio di Amministrazione. Apparentemente, non v’è nessuno rapporto aritmetico tra questi numeri primi e non appartengono neppure alla solita serie di Fibonacci; infatti, qualche commissario ha trovato bizzarra la numerologia e in sede di votazione si è ripetutamente astenuto, un altro si è addirittura opposto — il tutto a prova della procedura democratica alla quale sono stati improntati i lavori della Commissione.

Alla fine, i numeri usciti sono quelli proposti dal rettore con la sola incertezza sul totale dei dipartimenti,che, grazie a prestito di parenti e future complicità concorsuali, potrebbero divenire tredici, in spregio alla scaramanzia.

E tuttavia, a ben vedere, quei numeri attestano una certa coerenza interna del disegno riformatore. Partiamo dal cinquanta; l’aver fissato, per abbattere i costi,una soglia minima arbitraria senza indicare un limite massimo favorisce l’accorpamento dei dipartimenti secondo la facoltà di riferimento – criterio non propriamente aziendale, un costo esterno che il rettore paga per l’alleanza con i presidi. Infatti, Stanlio e Olio sono pronti ad inabissarsi in quanto presidi per riaffiorare, da qui a poco, come direttori di Dipartimenti, riformati sì ma composti da una tale quantità di docenti da porre la necessità di un surplus di rappresentanza in seno al senato accademico.

Inoltre, una soglia minima così alta impedisce la formazione di nuovi dipartimenti per la ricerca di base, quella specifica dell’università, tematica o disciplinare che sia; infatti, proprio a causa del loro essere davvero “ nuovi” hanno scarse possibilità di aggregare “ab initio” una numero così consistente di docenti.

E veniamo a ventuno, tanti sono i componenti del Senato riformato. Questo numero assicura il Rettore di disporre della maggioranza in seno all’organo,che, giova ripeterlo, presiede – maggioranza , i conti son presto fatti, composta dai direttori ex-presidi, dai “responsabili” rappresentanti degli minipartiti studenteschi nonché dai sindacalisti che collaborano.

Quanto al dodici, che potrebbe divenire tredici, abbiamo già detto. Resta da esaminare il dieci, il numero di componenti il Consiglio di Amministrazione riformato. Qui, veramente il Rettore e la sua Commissione hanno dato il meglio. La nuova regola prevede che il Rettore sia eletto insieme ad un “listino” di cinque consiglieri di suo insindacabile gradimento – questo listino, ognuno lo vede, è quella stessa alzata d’ingegno adoperata dai professionisti della politica calabrese per fare eleggere consiglieri regionali da loro stessi nominati.

Qui i saperi disciplinari dei commissari si sono mirabilmente intrecciati, dando luogo ad un modello d’università composta: azienda più partito politico—si prende il meglio da entrambi, dall’azienda la condotta padronale e dai partiti l’organizzazione clientelare.



III). Latorre dopo la Gelmini.

Infine, per chiudere senza concludere, ci sia consentito, come si diceva una volta, di spezzare una lancia a favore del rettore, insomma una considerazione finale. Circola voce, tra gli stessi sodali del magnifico, che il nuovo statuto sia stato redatto su misura, per permettergli, in un futuro prossimo, che resta pur sempre incerto, di presiedere la Fondazione alla quale verrà consegnata la proprietà dell’UNICAL Noi siamo tra coloro che credono si tratti di un ingiusto sospetto; e, da avversari non di Giovanni Latorre ma della sua politica culturale, lo diciamo per onestà intellettuale. Infatti, non è più necessario che il nostro rettore sacrifichi la sua passione di studioso e le gioie del tempo libero, per salvare, per la quinta volta e sotto altra forma, l’Ateneo calabrese.

Dopo la fatica gravosa di esercitare a lungo,troppo a lungo, il potere accademico, ha il diritto di ritirarsi malgrado l’apprensione che questa possibilità suscita tra le schiere degli studiosi e ricercatori che, generosamente, per fini nobili, lo hanno sostenuto con stima e affetto per questi indimenticabili anni. Penso che su questa questione la determinazione del nostro Rettore sia irreversibile; e questo con ragione, perché, con questa ultima trovata del listino, ha impresso una accelerazione alla realizzazione del suo programma,l’Università partito- azienda; sicché, senza tema d’essere giudicati corrivi, possiamo affermare che il prof. Giovanni Latorre prenderà ancora qualche anno per controllare fin nei minimi dettagli, per poi, alla maniera di Cincinnato, ritirarsi, con la tranquilla coscienza di chi ha realizzato l’opera sua. Pienamente, purtroppo.

mercoledì 15 giugno 2011

I dieci errori più gravi delle amministrazioni pubbliche

 di Arturo Bianchi su www.ilsole24ore.it del 13.06.2011

La Ragioneria generale ha appena pubblicato i risultati della propria attività ispettiva negli enti locali. Dal massimario 2010, è utile trarre il decalogo degli errori più gravi incontrati diffusamente dagli ispettori, per mettere in luce i punti deboli che rimangono nell'attività degli enti.
Affidamento appalti. Si aggirano i vincoli dettati dal codice degli appalti, attraverso il frazionamento dell'importo: in questo modo gli enti stanno al di sotto della soglia per il conferimento di incarichi di progettazione con i vincoli comunitari e di quelle per i lavori in economia e in amministrazione diretta.
- Anagrafe delle prestazioni. Molte amministrazioni non comunicano al dipartimento della Funzione pubblica le informazioni sugli incarichi conferiti a soggetti esterni (generalità, oggetto, compenso, durata) nè quelli conferiti a dipendenti pubblici e ai propri dipendenti.
- Attivazione di nuovi servizi. La parte variabile del fondo per la contrattazione decentrata viene incrementata per l'attivazione di nuovi servizi e/o il loro miglioramento senza che essi siano progettati preventivamente, che determinano risultati tangibili per i cittadini, che la misura degli aumenti sia determinata oggettivamente, ripetendo l'incremento negli anni senza accertare il raggiungimento dell'obiettivo.
- Conferimento degli incarichi di collaborazione. Non si rispettano i vincoli dettati dall'articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001: l'ente non ha adottato un piano, è stato violato il tetto di spesa, non è stata accertata la mancanza di analoghe professionalità all'interno dell'ente, il compenso non è stato determinato con criteri oggettivi, i collaboratori non sono stati scelti con criteri selettivi, è mancata la pubblicità sul sito internet.
- Indebitamento. Viene violato il principio costituzionale per cui l'indebitamento è consentito solamente per il finanziamento delle spese per gli investimenti. In particolare, si qualificano come tali altre spese.
- Indennità agli amministratori. Sono erogati compensi illegittimi agli amministratori per la remunerazione delle riunioni svolte dalla conferenza dei capigruppo consiliari, l'illegittimo innalzamento e/o la mancata decurtazione delle indennità di carica e gettoni di presenza, il mancato accertamento della presenza e della durata delle riunioni delle commissioni consiliari.
- Onnicomprensività del trattamento accessorio. I dirigenti e, anche se in misura minore, i titolari di posizione organizzativa, ricevono compensi in violazione del principio della onnicomprensività delle indennità di posizione e di risultato: gettoni per le commissioni di concorso e di gara, remunerazione di incarichi ulteriori.
- Produttività. Questo compenso non può essere erogato sulla base di criteri automatici o "a pioggia", quali ad esempio la presenza e l'inquadramento, ma in modo selettivo sulla base di una valutazione effettuata dai dirigenti, dopo che sia stato accertato dal nucleo il raggiungimento degli obiettivi assegnati ed a condizione che questi, assegnati preventivamente, determinino un apprezzabile miglioramento dei normali standard.
- Riduzione del fondo. Il fondo per la contrattazione decentrata deve essere decurtato del salario accessorio in godimento da parte del personale Ata trasferito al ministero della Pubblica istruzione. Gli oneri per il reinquadramento dei vigili e degli operai vanno tolti dal fondo. E così vanno tolte le risorse in godimento da parte del personale cessato per esternalizzazione del servizio.
- Tetto alla spesa del personale e alle assunzioni. Occorre rispettare il tetto alla spesa del personale dell'anno precedente negli enti soggetti al patto e del 2004 in quelli non soggetti al patto. Le assunzioni a tempo indeterminato possono essere effettuate nei vincoli dettati dalle finanziarie e non dagli enti che non hanno rispettato il patto. Le assunzioni flessibili non possono essere prorogate più di una volta e in modo da superare il tetto di tre anni e devono essere adeguatamente motivate.

Da evitare 01|AFFIDAMENTO APPALTI
Vincoli aggirati con il frazionamento dell'importo
02|ANAGRAFE PRESTAZIONI
Mancata comunicazione degli incarichi a esterni e dipendenti
03|FONDO ATTIVAZIONE NUOVI SERVIZI
Incremento automatico e non a fronte di effettive novità
04|CONFERIMENTO COLLABORAZIONI
Non si rispettano i vincoli di legge
05|INDEBITAMENTO
Si qualificano altre spese come «spese per investimenti»
06|INDENNITÀ AGLI AMMINISTRATORI
Sono erogati compensi illegittimi agli amministratori
07|ONNICOMPRENSIVITÀ TRATTAMENTO ACCESSORIO
I dirigenti ricevono compensi extra non dovuti
08|PRODUTTIVITÀ
Erogazione compenso «a pioggia»
09|CONTRATTAZIONE DECENTRATA
Mancata decurtazione dal fondo del salario accessorio del personale trasferito o cessato
10|TETTO A SPESA DI PERSONALE E ASSUNZIONI
Violazione dei vincoli imposti dal patto di stabilità

lunedì 13 giugno 2011

Università immobile per Statuto


da www.ilsole24ore del 2.6.2011 di Daniela Venanzi
Le università stanno riscrivendo i loro statuti in applicazione della legge 240/2010. Le prime evidenze che emergono mostrano la tendenza degli atenei ad arroccarsi sulla conservazione dello status quo. Questa riforma, presentata dalla maggioranza di governo come "epocale", rischia così di tradursi in un nulla di fatto.
Alcune prime attuazioni sembrano tradire i principi definiti fondanti della riforma, quali la centralità della ricerca, la semplificazione organizzativa, il focus sulla qualità dei risultati e sulla loro valutazione come metro per assegnare risorse, l'efficienza decisionale, il richiamo all'etica dei processi della comunità universitaria. Principi ampiamente condivisibili, che nella legge però sono meri proclami cui è facile aderire, ma per i quali è molto meno facile trovare una metrica adeguata per tradurli in regole decisionali, in organizzazioni funzionanti, in meccanismi operativi virtuosi. Qui sta la causa prima dei vizi che alcuni atenei stanno introducendo. Basta leggersi i verbali e documenti istruttori (in itinere) delle commissioni statuto di alcuni atenei, accessibili sui siti web, quali per esempio Basilicata, Calabria, Genova, Napoli, Pisa, Roma Tre, Siena, Trieste, Verona, per avere esempi di alcune criticità.
In primo luogo, le modalità con cui è stata organizzata la fase costituente e sono stati designati gli organi deputati a svolgerla. Qui si va dal massimo della democrazia e condivisione a estremi di stampo dirigistico e autoritario. I primi sono processi che stimolano la partecipazione di tutte le componenti dell'ateneo, la massima trasparenza dei processi e dei documenti prodotti, riservandosi i vertici attuali solo un ruolo di garanzia sul processo. All'estremo opposto, i vertici di ateneo, spesso scaduti e in prorogatio per effetto della riforma, dettano linee guida molto stringenti alla commissione statuto su quello che il nuovo statuto dovrà essere. A volte i componenti della commissione statuto sono indicati dagli organi che la riforma esautora. In numerosi atenei i verbali e documenti della commissione sono resi accessibili solo dall'interno dell'ateneo oppure mantenuti riservati (oppure prima resi pubblici e poi oscurati).
E veniamo alla governance. I dipartimenti, che la legge vuole ridefiniti secondo criteri di omogeneità scientifica, spesso non vengono ridefiniti affatto, ma sono mere aggregazioni degli attuali dipartimenti per facoltà, replicandole tali e quali sotto diverso nome, trasformando così l'omogeneità da scientifica a didattica. Il "partito dei presidi" mira a impacchettare nello stesso dipartimento i corsi di laurea offerti dalle attuali facoltà, limitando al minimo le interazioni tra i "nuovi" dipartimenti per quanto attiene alla didattica. L'omogeneità scientifica dei dipartimenti è, invece, indispensabile per il rilancio della ricerca e per una seria valutazione dei risultati, cui legare l'assegnazione delle risorse e la responsabilità primaria dell'offerta formativa. Come pure è gestibile (oltreché utile) l'interazione tra i dipartimenti che contribuiscono allo stesso progetto formativo, se si vuole migliorare la didattica, legandola allo sviluppo della ricerca nei diversi ambiti scientifici: soluzioni organizzative idonee allo scopo s'insegnano da anni nelle aule universitarie dei corsi di management.
Si teme, forse, che lo scardinamento delle attuali recinzioni in dipartimenti e facoltà e la successiva libera riaggregazione di docenti per progetti di ricerca e affinità scientifica possa intaccare l'attuale mappa del potere o cancellare i confini degli attuali "orticelli"? A volte, neppure si definiscono i criteri per formare i nuovi dipartimenti, ma si stabiliscono direttamente quanti (e quali) saranno, per garantirne piena rappresentanza nel senato accademico, ricavando ex post il numero minimo degli afferenti. Alla faccia dell'evoluzione del sapere e degli ambiti scientifici e di ricerca!
Ma emerge anche una strategia alternativa: dipartimenti attuali (adeguati ai minimi di legge) e strutture di raccordo - che la legge Gelmini immagina snelle con compiti puramente tecnici di coordinamento e razionalizzazione didattica - forti, sovraordinate rispetto ai dipartimenti, capaci di avocare a sé l'allocazione delle risorse, in un gioco di proposta, vaglio e riproposta con i dipartimenti degno della peggiore burocrazia degli apparati. Si chiamino scuole o strutture di raccordo, sono le attuali facoltà, governate però non da un organo collegiale (come ora), bensì da un consiglio di presidenti e direttori, strutture quindi non tecniche ma politiche, intermedie tra senato accademico e dipartimenti, con rappresentanza di diritto nei vertici di governo, così forzando il principio dell'elettività della rappresentanza e il divieto di cumulo di cariche nel senato accademico, fissati dalla legge (articolo 2, comma 1, lettere f e s).
L'attuale mappa del potere, insomma, non cambia, ma si rafforza e si verticalizza. Gli organi si moltiplicano e si moltiplicano i livelli decisionali. Altro che semplificazione. Ma perché la "nomenclatura accademica" dovrebbe lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione di una svolta centralista e autoritaria che la legge Gelmini, in nome di un decision-making più efficiente e finalizzato, consente e forse incentiva?
E che dire della tendenza a limitare il ruolo degli esterni, quando la legge li impone, nel consiglio di amministrazione o nel nucleo di valutazione? Che si tratti di fissarne il numero al minimo, oppure di far proporre o approvare i nomi dai vertici a composizione interna, oppure di rinviarne i criteri di designazione dallo statuto al regolamento interno, sono varianti dello stesso vizio di autoreferenzialità.

domenica 12 giugno 2011

I partiti sono diventati macchine di potere

ovvero "La questione morale" - intervista di Eugenio Scalfari ad Enrico Berlinguer


La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.

Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
«La Repubblica», 28 luglio 1981

giovedì 9 giugno 2011

Università di Foggia: presentata la bozza di nuovo Statuto

da www.statoquotidiano.it del 7.6.2011

Foggia – PRESENTATA stamane presso l’Aula Magna di Ateneo la proposta del nuovo Statuto dell’Università di Foggia elaborata ai sensi della legge n. 240/2010. La conferenza di Ateneo, alla quale hanno partecipato docenti, personale tecnico e amministrativo e studenti, si è aperta con una relazione del Magnifico Rettore, Giuliano Volpe, che ha illustrato i lavori svolti nei mesi scorsi dalla Commissione istituita per la riforma statutaria (composta dal Rettore, da 5 rappresentanti dei professori ordinari, da 3 rappresentanti dei professori associati, da 2 rappresentanti dei ricercatori, da 2 rappresentanti degli studenti e da 2 rappresentanti del personale tecnico- amministrativo) e sugli orientamenti assunti in merito alla modifica dei principi generali e normativa interna (Titolo I,) delle disposizioni relative agli Organi di Ateneo (Titolo II) e dell’organizzazione della didattica e della ricerca (Titolo III) nonchè delle norme transitorie.

“Sono molto grato a tutti i componenti della Commissione che, con grande abnegazione e spirito di sacrificio, si sono impegnati per rispettare pienamente i tempi previsti dalla legge di riforma per la modifica dello statuto della nostra Università. Ha dichiarato in apertura il Rettore Giuliano Volpe – Tale risultato ci consente di essere tra le prime università italiane ad aver già chiuso i lavori previsti dall’art.2 comma 5 della Legge 240/2010. Un ringraziamento doveroso al Dipartimento Governance a Affari Istituzionali che ha fornito alla Commissione un’assistenza tecnica preziosa ed efficiente senza la quale non avremmo raggiunto questo importante obiettivo in cosi breve tempo. Credo che la Commissione abbia svolto, in questi mesi, un buon lavoro tuttavia la riformulazione dello statuto è un adempimento troppo importante per la nostra comunità per limitarne la discussione ad un consesso ristretto, ancorché assai qualificato e rappresentativo. Ecco perché, unitamente alla richiesta di osservazioni avanzata alle strutture di coordinamento della ricerca e della didattica di Ateneo (Facoltà e Dipartimenti) ho voluto convocare questa Conferenza di Ateneo come momento di riflessione collettiva su un tema fondamentale per la crescita e il futuro della nostra Università”.

Nella sua relazione il Rettore ha esordito ribadendo il principio secondo
cui l’Università è sede primaria di libera ricerca e formazione, luogo di
apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze ed opera nell’ambito dei principi di autonomia, responsabilità e trasparenza. A seguire il prof. Volpe ha illustrato le modifiche più significative contenute all’interno del testo di riforma dello statuto definendolo il documento più importante per la vita e le prospettive di crescita dell’Università.

Tra le novità più rilevanti: 1) il passaggio dalle attuali 6 Facoltà e 12 Dipartimenti a soli 6 Dipartimenti; 2) la distinzione dei ruoli, delle prerogative e della composizione degli organi di Governo per favorire l’attuazione di un bilanciamento dei poteri a fronte di una precisa definizione delle responsabilità. In particolare per quanto concerne gli organi di governo a fronte di una situazione attuale caratterizzata dalla duplicazione di funzioni dei due organismi nella proposta di Statuto il Senato Accademico è definito come luogo di indirizzo politico, di rappresentanza di tutte le componenti e vigilanza con un ruolo quindi propulsivo, consultivo e di controllo. Tra le funzioni riconosciute anche quella di poter proporre una mozione di
sfiducia nei confronti del Rettore in presenza di gravi atti lesivi dell’interesse dell’Università.

Il Consiglio di Amministrazione viene, invece, definito come l’attuatore
delle politiche accademiche indicate dal Senato Accademico e quindi
organismo di governo gestionale a favore di un funzionamento più efficiente dell’Università. Anche la composizione cambia a favore di una struttura organica più snella ed efficiente: in Senato Accademico si passa dagli attuali 38 componenti a 24 mentre nel Consiglio di Amministrazione dagli attuali 22 a 10.

Novità anche per la figura del Rettore, garante della libertà di ricerca e
di insegnamento, responsabile del perseguimento delle finalità dell’università secondo criteri di qualità e nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza, trasparenza e promozione del merito. Il Rettore può essere eletto tra i professori ordinari in servizio presso le Università italiane e, quindi, non solo presso l’Università di Foggia, come avviene
attualmente. Il mandato rettorale potrà avere una durata massima di 6 anni non rinnovabili consecutivamente. Il rettore potrà essere eletto con voto pieno dei professori di ruolo, dei ricercatori e dei componenti del Consiglio degli studenti e con voto pesato dei tecnici amministrativi a tempo indeterminato ( ai voti espressi dal personale tecnico amministrativo sarà assegnato un peso pari al 6,5% del numero dei professori e dei ricercatori votanti nella specifica procedura elettorale).

Tra le novità normative anche un riferimento alla Federazione tra
Università, progetto attualmente in atto in collaborazione con le altre
università Pugliesi, della Basilicata e del Molise. Il nuovo Statuto
contempla altresì la nuova figura del Direttore generale così denominato dalla legge di riforma al quale vengono riconosciuti ampi poteri e responsabilità in ordine alla gestione e all’organizzazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico amministrativo e la Consulta di Ateneo (già istituita per volontà del Rettore Volpe) con lo scopo di incrementare i momenti di confronto tra l’Università e i principali attori istituzionali di riferimento del territorio.

Alla relazione del Rettore è seguito un ampio dibattito con vari interventi, suggerimenti e proposte emendative da parte degli studenti e del personale docente. Il Rettore a chiusura dell’Assemblea ha ricordato i tempi di approvazione della proposta statutaria ricordando che giovedì 9 giugno 2011 alle ore 16,00, presso la Sala Consiglio di Palazzo Ateneo la proposta di modifica statutaria sarà presentata anche agli Enti e alle Istituzioni che fanno parte della Consulta di Ateneo allargata, in detta circostanza, alla partecipazione dei rappresentanti del mondo professionale, socio-economico e culturale del territorio. Lunedì 13 giugno 2011 si svolgerà la riunione conclusiva della Commissione Statuto, martedì 21 giugno 2011 si terrà la riunione per l’acquisizione del parere del Consiglio di Amministrazione e a fine mese di giugno si acquisirà la delibera definitiva del Senato Accademico.

Università di Modena: pronta la bozza di nuovo Statuto

dal sito web della gazzetta di Modena del 9.6.2011

di Davide Berti

Quattro mesi di lavoro per una vera rivoluzione copernicana dell’università.
In 52 articoli, la commissione che l’ateneo di Modena ha costituito ad hoc per rispondere alla legge Gelmini, ha messo nero su bianco quella che è formalmente ancora una bozza ma presto rappresenterà il futuro delle nostre facoltà. E mai come in questa occasione parola fu più sbagliata: le facoltà, infatti, con la nuova organizzazione, spariranno.
Le maggiori novità, infatti, riguarderanno la governance dell’ateneo, e in particolare le funzioni e la composizione degli organi, Consiglio di Amministrazione e Senato Accademico con meno poltrone e struttura più agile, semplificazione dell’attuale struttura di ateneo attraverso la ridefinizione dei dipartimenti, ridotti e accorpati in sostituzione delle vecchie facoltà.
I numeri chiariscono come la cura dimagrante porti ad un passaggio non facile per la struttura accademica. Oggi esistono 30 dipartimenti e 12 facoltà. Domani - la riforma partirà ufficialmente dall’anno accademico 2012/2013 - sarà tutto ridotto ad un massimo di 20 dipartimenti, senza più la distinzione tra strutture di ricerca e di insegnamento.
Non ci sarà nessun risparmio di natura economica: «In università le poltrone non hanno un costo - spiega il rettore Aldo Tomasi - e anche se ci saranno meno responsabili di dipartimento e scomparirà la figura del preside di facoltà il bilancio non subirà sostanziali variazioni. Piuttosto si tratta di dare maggiore efficienza al sistema, evitando duplicazioni e riducendo le procedure».
Così facendo i dipartimenti, ridotti sensibilmente nel numero, diventeranno la nuova struttura di base dell’ateneo. Il consiglio di dipartimento sarà aperto anche al personale precario. Se, poi, i dipartimenti non avessero la capacità di gestire in autonomia i corsi di studio e di formazione, o quando si volessero raccordare per garantire una migliore gestione della didattica potranno aggregarsi in scuole di ateneo, eredi delle attuali facoltà, ma caratterizzate da una maggiore semplicità strutturale. Ma siamo nell’ambito delle eccezioni e questo passaggio, se avverrà, sarà solo gradualmente e quando la riforma sarà già avviata.
Per quanto riguarda il rettore si andrà ad eleggere un “magnifico” che rimarrà in carica addirittura sei anni. Mandato non rinnovabile, ma comunque lungo. In caso di problemi, l’unica arma in mano all’ateneo sarà la sfiducia, prassi che sarà inserita per tutte le cariche che saranno ricoperte. Per la prima volta, poi, verrà introdotta la figura del rettore vicario: nominato dal rettore, rappresenterà autonomamente la sede di Reggio Emilia.
Snellimento anche per i due organi accademici principali. Il consiglio di amministrazione passerà da 25 a 11 membri e avrà un ruolo deliberativo, cosa che invece adesso spettava al Senato. Quest’ultimo, nella nuova formula, passerà a 25 membri contro gli attuali 26 e avrà un ruolo di consulenza e sarà composto da una rappresentanza fedele alle tre aree, biomedica, umanistica e scientifico-tecnologica.
Nell’analisi del lavoro, i professori Massimo Donini e Daniela Fontana hanno precisato come siano state rispettate alcune finalità democratiche: «È stata introdotta la rappresentanza degli studenti in tutti gli organi collegiali e la componente femminile non dovrà essere inferiore a un terzo».

lunedì 6 giugno 2011

I poveri non si fanno la guerra ma la subiscono!

di GIANCARLA CODRIGNANI su www.repubblica.it del 6.6.2011
 
Abbiamo davvero chiari i disastri che produce "questo" governo? Forse no. Altrimenti si vedrebbe la gente darsi un gran daffare per mettere qualche diritto residuo in cassaforte e studiare come prevenire i danni di un futuro di sacrifici. In questi giorni rettori e senati accademici sono oltre l'orlo della crisi di nervi, perché hanno dovuto prendere atto che "in conformità alla legge" va smantellata "questa" università per rimodellarla a misura Gelmini. Questo significa che i ragazzini che oggi hanno dieci anni pagheranno qualche migliaio di euro per entrarci.

La china va giù a rotta di collo e tutti sanno che, quanto più si va giù, tanto più è difficile risalire. Per questo importa poco piangere sul latte versato, su chi è stato il primo a dire che la scuola è un'azienda o se anche per D'Alema sussidiarietà significa che il privato fa quello che lo stato non può fare.

Ma una premessa diventa cruciale per i governi - dello stato come delle città - : se si possano privatizzare i diritti e se scuola e sanità siano ancora, oppure non più, dei diritti. Forse non ci rendiamo conto che la scuola di tutti, quella del dettato costituzionale, è a rischio di privatizzazione. Il documento economico-finanziario del 2011 riduce gli interventi per l'istruzione dal 4,5 % del Pil al 3,2. I tagli sulla scuola pubblica - invariato il trattamento delle private - sono di 8 miliardi in tre anni. Quelli sui docenti prevedono una riduzione di 87.341 docenti (e 44.500 segretari, tecnici e bidelli). I precari sono sicuri solo di non venire assorbiti. Aumenta il numero di alunni per classe (mentre la presenza di altre culture esigerebbe attenzione più individualizzata), gli handicap già non hanno sostegno, il tempo pieno è affidato alle disponibilità dei Comuni. Anche se domani entrasse in carica un nuovo governo, non avrebbe alternative. Quindi, senza apertura a 360° del dibattito sulla scuola per avvertire gli italiani che figli e nipoti perderanno opportunità perché privati di un diritto fondamentale; e senza mettere la scuola in primo piano, ci troveremo "inculcata" (lessico berlusconiano) la privatizzazione.

C'è chi pensa - come l'associazione Articolo 33 - che una consultazione popolare possa rilanciare la questione di quanto stiano a cuore i diritti e la Costituzione. Chiedere ai cittadini se la somma che il Comune destina alla scuola dell'infanzia debba essere riservata alle materne pubbliche o estesa alle private, non interferisce con le convenzioni praticate da oltre vent'anni. Infatti non sono state costruite nuove scuole dell'infanzia, non sono pensabili affittanze onerose, mancano strutture e personale. Se la finalità fosse l'abolizione, la formula del referendum sarebbe impropria. Il valore principale dei referendum, infatti, è conoscitivo. Per questo resta, nel nostro caso letteralmente, sub iudice la dichiarazione "di non procedibilità" della richiesta di "Art. 33", presentata - e correttamente trasmessa dalla Commissaria di governo - , da parte del Comitato dei garanti, in violazione dell'art.7 dello Statuto comunale, che favorisce l'indizione di referendum popolari.

Il quesito può non piacere perché interroga sul passato, su riforme non realizzate (le donne si domandano sempre perché i "nidi" non siano ancora legge dello stato), sulle "supplenze" che hanno interferito con i diritti e anche sulla passività della partecipazione di tanti che, in ritardo, si indignano senza studiare i rimedi. Intanto lo scivolamento continua e la pendenza si fa più forte. E' tempo di chiederci se ce la faremo a salvare la scuola di tutti, dal momento che ci è sembrato un gran traguardo non far pagare l'iscrizione all'asilo. I poveri (si rassicurino, se è una rassicurazione, gli amministratori) non si fanno la guerra tra loro, perché - in questo caso cittadini e amministrazioni allo stesso livello - le subiscono.
(06 giugno 2011)