dal sito facebook di Diego Cugia - Jack Folla - 1.2.2011
L’Italia è un paese maleducato. Non mi riferisco al galateo o alla volgarità, che sono mali minori, ma alla maleducazione per eccellenza: l’infantile incapacità di stare al mondo. Per stare al mondo intendo la coscienza di saper distinguere fra dare e avere e fra diritti e doveri.
Nel 1961, in occasione del discorso inaugurale della sua presidenza, John F. Kennedy disse: «Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese». In quei giorni l’Italia festeggiava il suo primo secolo. Sono trascorsi cinquant’anni esatti ed è rimasta una bambina viziata. Il vizio nazionale più diffuso, secondo me, è l’assoluta intolleranza, individuale e collettiva, nel distinguere quel che è di tutti da ciò che è solo nostro, e nel sapere donare quel che è solo nostro per il bene di tutti.
Non abbiamo rispetto nemmeno dei nostri figli, basti pensare al mostruoso debito pubblico che lasciamo loro in eredità, all’ambiente degradato, alla nostra Storia che stravolgiamo per interessi di bottega. Non abbiamo rispetto, cioè, neppure dei nostri poveri morti. Anche quelli morti per la “Padania”.
Come tutti i bambini, compresi i più furbetti, l’Italia è una grande ingenua. Crede nelle scorciatoie, nei favori, nella spintarella. Non pensa che, alla fine dei giochi, il conto salatissimo dovrà pagarlo sempre lei, quindi noi. Soffre di onnipotenza infantile. Mentre il mondo è attraversato da rivoluzioni popolari, come quella egiziana, che potrebbero cambiare gli equilibri del pianeta, i nostri telegiornali sono dediti, con la nostra pettegola complicità, a una sorta di onanismo infantile. La matrioska berlusconiana e tutte le bamboline in essa contenute attraggono la nostra voyeristica attenzione e il nostro sdegno con potenza magica infinitamente superiore alle leggi “ad personam” o al grottesco -per una democrazia occidentale- conflitto d’interessi del nostro premier. Perché? Perché è più semplice e più morboso così. Mentre “conflitto d’interessi” è un concetto severo che per capirlo bisogna impegnarsi un pochino. Siamo indolenti. Teniamo famiglia. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Come diceva un vecchio amico mio “Siamo bestie da terza elementare”.
È proprio sulla capacità di “dare” che si misura la maturità di una persona e di un paese. Ma è già un primo passo la consapevolezza di non aver ancora dato abbastanza. Invece, sia che prendiamo come esempio l’attuale governo, sia un italiano a caso, è molto probabile che saremmo tacitati da elenchi di presunte cose fatte per gli altri o per il bene della nazione, e mai da un’ammissione di egoismo, di inadeguatezza, di colpa. Pecchiamo, cioè, di impunità.
Ma c’è di più. Se vediamo qualcuno, disinteressatamente, compiere davvero qualcosa di utile per il prossimo, in cuor nostro lo detestiamo e prima o poi lo lapidiamo. Il grave è che ciò accade, per quanto possa sembrare pazzesco, “in buona fede”. Animati da quella stessa onnipotenza infantile che ci fa ritenere sempre migliori del prossimo, più bravi e generosi.
Anche per questo è sempre più raro che ai vertici della nostra classe politica risieda un vero “migliore”. Qualcuno in grado di fare una sintesi dei diritti e dei doveri di tutti e di riformare lo Stato. Io non credo che la classe politica sia lo specchio del paese, semmai ne è quello deformante. Lo specchio che riflette il peggio di noi stessi, l’unico che siamo capaci di tollerare. Il fatto di essere stati schiavi per secoli di signori e potenze straniere si dev’essere purtroppo sedimentato nel nostro Dna. Non essendo capaci di essere signore e signori di noi stessi, deleghiamo a un Signore la gestione del nostro destino. Non a una democrazia, a un leader.
Se tutti noi, da donne e uomini veri, ci rieducassimo, se imparassimo quotidianamente a fare un bilancio, in famiglia, in ufficio, in un’associazione o in un partito, fra quello che obiettivamente diamo e ciò che prendiamo e pretendiamo, dai figli, dai colleghi, dai compagni di strada, questo nostro paese farebbe un immenso passo avanti. Non è la capacità di sdegnarsi che ci manca, né, purtroppo, ci manca il fango o il marcio per lamentarci dell’Italia, ma in concreto, noi, tu e io, che stiamo facendo per raddrizzare la schiena nostra e del paese? Domandarselo è un dovere civile.
Credo infine che lo schema che il nostro popolo ripete da decenni, come topolini sulla ruota, potrebbe essere spezzato anche con un’ultima consapevolezza. Riguarda il capro espiatorio. Questa è l’ultima risorsa della nostra vigliaccheria. Bruciare il pupazzone in piazza dopo aver strisciato al suo cospetto. Pronti a osannarne un altro destinato alla stessa fine. Forti coi deboli e deboli coi forti. Milioni di uomini sono stati immolati da altri, ne sono stati il capro espiatorio: l’olocausto degli ebrei è il più tragico di questi esempi. Ma anche piazzale Loreto lo è. Chi prese a calci il cadavere della Petacci era di certo qualcuno che aveva osannato il duce a piazza Venezia. Il capro espiatorio, lo dice la parola stessa, è l’ultimo grande inganno di un popolo infantile. Far espiare a un altro anche le proprie colpe. Ma così non si estirpa il male, lo si copre. E la Storia, puntualmente, si ripresenta proponendoci l’identico schema.
La nostra “maleducazione”, in sostanza, è una refrattarietà a diventare adulti. È come se all’Italia non fosse ancora spuntato il dente del giudizio. Che non è giudicare gli altri, ma giudicare se stessi, sapersi assumere limiti, colpe, responsabilità oggettive. Dare, almeno, quanto si è ricevuto. Mettersi in dubbio.
La nostra maleducazione è un egocentrismo indomito, un’incapacità a trasformarci in coscienza collettiva. Sappiamo solo dividerci e combatterci, in bande, in lobby, in famiglie. Noi italiani siamo primordiali, abbiamo una psiche da età della pietra, e non ce ne rendiamo neppure conto. E questo è il danno più grave.
Perciò, cinquant’anni dopo, dobbiamo rimboccarci le maniche e ricominciare dalla pagina uno del sillabario della civiltà. Quella preceduta dal distico di Kennedy: «Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese». Tutti noi, umilmente, dobbiamo cominciare a chiedercelo. Non sarà certo la caduta di Berlusconi, prima o poi, a risolvere la nostra atavica refrattarietà a trarre un bilancio individuale e politico fra il nostro dovere di dare e il susseguente diritto di avere.
Nessun commento:
Posta un commento