da www.ilfattoquotidiano.it del 23.02.2011
“Guido Possa (Milano, 15 gennaio 1937) è un politico italiano. Laureato in ingegneria meccanica nucleare presso il Politecnico di Milano, amico fraterno di Silvio Berlusconi, assieme al quale vendeva a domicilio scope elettriche…”. Inizia così la voce su Wikipedia dedicata all’onorevole Possa, ora presidente della Commissione Cultura del Senato, che l’altro giorno alla trasmissione “Tutta la città ne parla” su Radio3, ci spiegava il concetto che il suo amico Silvio B. ci aveva già illustrato con queste semplici parole: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Nelle parole di Possa: “Vi è in atto un processo di contenimento dello spesa pubblica in tutti i paesi del mondo dunque è necessario tagliare… Bisogna concepire la ricerca come un formidabile processo internazionale in cui il nostro apporto è di qualche percento… Noi siamo un paese che ha limiti e bisogna prendere atto di questi limiti. Non possiamo assolutamente più pensare di essere un paese di serie A in tanti settori perché le ricerche sono condotte con mezzi che non possiamo permetterci.”
Possa ha il grande merito di essere finalmente chiaro, al di là delle chiacchiere del Ministro Gelmini, dei suoi acuti consiglieri e delle allodole che ci cascano, su quale sia l’idea che ha il governo sul ruolo dell’Italia nella ricerca, sulla meritocrazia e sull’eccellenza: l’Italia deve rinunciare a fare ricerca. Proprio un’ottima idea, che, infatti, questo governo ha perseguito con certosina pazienza e con una determinazione pari solo all’inesauribile ideazione di leggi ad personam: la riforma Gelmini è per il momento l’unica riforma promulgata da questo governo, e speriamo con il favore del vento del Nord Africa, anche l’ultima.
La maniera migliore di inquadrare il problema è quella storica. Giuseppe Saragat negli anni ’60 aveva espresso lo stesso concetto, come illustrato dall’interessante libro di Lucio Russo ed Emanuela Santoni “Ingegni minuti”, in una polemica con Felice Ippolito, che all’epoca aveva un ruolo centrale nel piano di costruzioni delle centrali nucleari, campo in cui l’Italia era all’avanguardia. Tra l’altro Saragat scrisse “Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini?”. Il seguito di questa vicenda fu assai triste ed Ippolito fu anche ingiustamente accusato per irregolarità amministrative ed incarcerato. Quando Ippolito ricevette la grazia pochi anni dopo, nessuno era più interessato alla ricerca nucleare in Italia.
Era un buon argomento quello di Saragat? Non mi sembra, visto che oggi il nostro governo va a comprare, con il piattino in mano e la cenere in testa, le centrali nucleari dalla Francia (ma magari anche questa intenzione verrà spazzata via dal buon vento nord-africano). Inoltre la ricerca fondamentale è importante perché forma persone capaci di pensare, in grado di trasmettere conoscenze e formare le nuove generazioni (semplice ma al momento inconcepibile concetto che si chiama crescita culturale del Paese), e di affrontare problemi tecnologici, magari non estremi come quelli che si affrontano facendo ricerca di punta, ma che comunque hanno risvolti pratici immediati. Pensiamo alle persone che si sono formate a trattare nell’ambito della fisica delle particelle o dell’astrofisica, enormi quantità di dati: se domani si vorrà seriamente procedere all’informatizzazione della pubblica amministrazione, bisognerà far riferimento proprio a queste persone. Ma pensiamo anche al settore della meccatronica, ovvero a quelle piccole e medie imprese che costruiscono apparati meccanici in cui ci vuole un interfaccia elettronico.
Certo è che in Italia le imprese ad alta tecnologia sono oggi quasi del tutto scomparse, e con esse è calata significativamente la richiesta di personale specializzato. Sarà probabilmente questa una delle ragioni per cui la nostra classe imprenditoriale pensa che la ricerca sia un lusso inutile, ed infatti il finanziamento per la ricerca applicata da parte dei privati è anche a livelli infinitesimi. La questione dell’auto-referenzialità della ricerca è in questo senso un serpente che si morde la coda: l’unico riferimento rimane quello pubblico in quanto quello privato sta scomparendo. Per eliminare l’auto-referenzialità bisognerebbe eliminare la ricerca!
Ma c’è un’altra possibilità, ad esempio organizzando degli spin-off, ovvero creazione d’imprese a partire da idee brevettate, trasferendo i risultati della ricerca alle imprese attraverso i contratti di licenza. Ma il trasferimento di tecnologia richiede organizzazione sia a livello di università e di enti di ricerca che a livello normativo generale, e chiaramente bisognerebbe che ci sia qualcuno che se ne occupi. Per fare un esempio a caso, negli Stati Uniti la famosa Silicon Valley, dove vi è una concentrazione tra le più alte al mondo d’industrie ad alta tecnologia, si trova vicino alcune tra le più prestigiose università americane. Rispetto al modello del passato in cui erano le grandi industrie (ad esempio la chimica) o aziende particolarmente illuminate (ad esempio l’Olivetti, prima che venisse smantellata) a stimolare la ricerca, oggi può avvenire il processo inverso, che siano le piccole e grandi scoperte della ricerca a dare impulso alla creazione di piccole o grandi imprese. Ma di sicuro se si punta alla produzione di scarpe, si finirà per rimanere con le suole in mano vendendo le scope elettriche, magari fatte in Cina, del duo Berlusconi-Possa.
Possa ha il grande merito di essere finalmente chiaro, al di là delle chiacchiere del Ministro Gelmini, dei suoi acuti consiglieri e delle allodole che ci cascano, su quale sia l’idea che ha il governo sul ruolo dell’Italia nella ricerca, sulla meritocrazia e sull’eccellenza: l’Italia deve rinunciare a fare ricerca. Proprio un’ottima idea, che, infatti, questo governo ha perseguito con certosina pazienza e con una determinazione pari solo all’inesauribile ideazione di leggi ad personam: la riforma Gelmini è per il momento l’unica riforma promulgata da questo governo, e speriamo con il favore del vento del Nord Africa, anche l’ultima.
La maniera migliore di inquadrare il problema è quella storica. Giuseppe Saragat negli anni ’60 aveva espresso lo stesso concetto, come illustrato dall’interessante libro di Lucio Russo ed Emanuela Santoni “Ingegni minuti”, in una polemica con Felice Ippolito, che all’epoca aveva un ruolo centrale nel piano di costruzioni delle centrali nucleari, campo in cui l’Italia era all’avanguardia. Tra l’altro Saragat scrisse “Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini?”. Il seguito di questa vicenda fu assai triste ed Ippolito fu anche ingiustamente accusato per irregolarità amministrative ed incarcerato. Quando Ippolito ricevette la grazia pochi anni dopo, nessuno era più interessato alla ricerca nucleare in Italia.
Era un buon argomento quello di Saragat? Non mi sembra, visto che oggi il nostro governo va a comprare, con il piattino in mano e la cenere in testa, le centrali nucleari dalla Francia (ma magari anche questa intenzione verrà spazzata via dal buon vento nord-africano). Inoltre la ricerca fondamentale è importante perché forma persone capaci di pensare, in grado di trasmettere conoscenze e formare le nuove generazioni (semplice ma al momento inconcepibile concetto che si chiama crescita culturale del Paese), e di affrontare problemi tecnologici, magari non estremi come quelli che si affrontano facendo ricerca di punta, ma che comunque hanno risvolti pratici immediati. Pensiamo alle persone che si sono formate a trattare nell’ambito della fisica delle particelle o dell’astrofisica, enormi quantità di dati: se domani si vorrà seriamente procedere all’informatizzazione della pubblica amministrazione, bisognerà far riferimento proprio a queste persone. Ma pensiamo anche al settore della meccatronica, ovvero a quelle piccole e medie imprese che costruiscono apparati meccanici in cui ci vuole un interfaccia elettronico.
Certo è che in Italia le imprese ad alta tecnologia sono oggi quasi del tutto scomparse, e con esse è calata significativamente la richiesta di personale specializzato. Sarà probabilmente questa una delle ragioni per cui la nostra classe imprenditoriale pensa che la ricerca sia un lusso inutile, ed infatti il finanziamento per la ricerca applicata da parte dei privati è anche a livelli infinitesimi. La questione dell’auto-referenzialità della ricerca è in questo senso un serpente che si morde la coda: l’unico riferimento rimane quello pubblico in quanto quello privato sta scomparendo. Per eliminare l’auto-referenzialità bisognerebbe eliminare la ricerca!
Ma c’è un’altra possibilità, ad esempio organizzando degli spin-off, ovvero creazione d’imprese a partire da idee brevettate, trasferendo i risultati della ricerca alle imprese attraverso i contratti di licenza. Ma il trasferimento di tecnologia richiede organizzazione sia a livello di università e di enti di ricerca che a livello normativo generale, e chiaramente bisognerebbe che ci sia qualcuno che se ne occupi. Per fare un esempio a caso, negli Stati Uniti la famosa Silicon Valley, dove vi è una concentrazione tra le più alte al mondo d’industrie ad alta tecnologia, si trova vicino alcune tra le più prestigiose università americane. Rispetto al modello del passato in cui erano le grandi industrie (ad esempio la chimica) o aziende particolarmente illuminate (ad esempio l’Olivetti, prima che venisse smantellata) a stimolare la ricerca, oggi può avvenire il processo inverso, che siano le piccole e grandi scoperte della ricerca a dare impulso alla creazione di piccole o grandi imprese. Ma di sicuro se si punta alla produzione di scarpe, si finirà per rimanere con le suole in mano vendendo le scope elettriche, magari fatte in Cina, del duo Berlusconi-Possa.
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