tratto da http://patrickmarini.wordpress.com
Chi di noi non ha sperimentato frustrazione e delusione nel proporre temi importanti per un’evoluzione sostenibile della vita, della nostra città o nazione?
Temi come la pace, l’ottimizzazione, la valorizzazione della natura e del paesaggio coinvolgono l’ intera collettività eppure suscitano spesso nell’interlocutore, disinteresse e critiche supponenti o affermazioni come la maremmana “tanto va bene uguale!”.
Chi di noi non ha sperimentato frustrazione e delusione nel proporre temi importanti per un’evoluzione sostenibile della vita, della nostra città o nazione?
Temi come la pace, l’ottimizzazione, la valorizzazione della natura e del paesaggio coinvolgono l’ intera collettività eppure suscitano spesso nell’interlocutore, disinteresse e critiche supponenti o affermazioni come la maremmana “tanto va bene uguale!”.
Il motivo di questo comportamento è lo stesso per cui il corpo docente delle università spesso è formato da intere famiglie allargate, è lo stesso per cui le nostre case sono pulite e splendenti mentre fuori (regno di tutti e di nessuno) si può sporcare, è lo stesso per il quale non riusciamo a fare la raccolta differenziata e i politici se ne stanno al parlamento fino alla morte è lo stesso per cui esiste la mafia, la camorra o la ‘ndrangheta…
Perché noi italiani siamo così? Nel 1958 un antropologo americano, Edward Banfield, si trasferì presso una piccola comunità della Lucania convenzionalmente chiamata Montegrano: un paese isolato di contadini e braccianti, fra i più poveri del mondo occidentale. Lo scopo era di studiare per comprendere i meccanismi di uscita dalla società tradizionale o di resistenza allo sviluppo.
“Banfìeid fu colpito dal fatto che non esistesse qui una vita associativa, e si chiese perché di fronte agli evidenti problemi sociali, nessuno si desse da fare per cambiare le cose. La risposta fu cercata nel «familismo amorale», un tratto culturale secondo il quale gli abitanti di Montegrano cercano soltanto di massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. La prospettiva di investire risorse ed energie in beni collettivi e un’azione organizzata per realizzarla sono per questo fuori dall’orizzonte delle possibilità. La spaventosa miseria, il senso di umiliazione, la paura del futuro sono il terreno sul quale il familismo amorale è cresciuto, ma i montegranesi sono ora prigionieri della loro morale centrata sulla famiglia.” (A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli “Corso di sociologia” ed Il Mulino pag. 680)
Questo comportamento non è molto cambiato, anzi sembra aver impregnato anche la politica, la scuola e persino il calcio, diventando la cultura dominante della nostra nazione. Il bello è che il termine “familismo amorale” viene spesso utilizzato in modo “particolaristico” come se se riguardasse soltanto una certo aspetto della cultura italiana e non l’Italia in generale. Del resto questo è forse il modo migliore per confondere un popolo non pensante, guidato in modo molto efficace dai media…..
Ma ecco alcuni esempi…
On. Giuseppe Pisanu, intervento al Senato del 20/10/2005 e alla Riunione straordinaria della Calabria a Reggio Calabria il 23/10/2004 […] Forte del suo “familismo amorale” che, da un lato, la rende particolarmente coesa e, dall’altro, la contrappone alla società civile e allo stato di diritto, la ‘Ndrangheta è insieme, per sua stessa natura, fenomeno criminale e forza eversiva.
Dichiarazioni di voto di Domenico Comino alla Camera, Seduta n. 322 del 10/3/1998 […] Per quanto riguarda la seconda relazione sui criteri di reclutamento del personale, abbiamo appreso, in una recente missione all’estero, come in altri paesi europei i funzionari ed il personale, in genere, dei servizi siano reclutati con appositi bandi pubblicati sui giornali. Qui da noi regna ancora una sorta di familismo amorale, per cui il politico, o il parente del politico di turno, manda a lavorare nei servizi di informazione e sicurezza il suo pupillo o il suo concessionario di voti, che non deve rispondere a nessuno, né in termini di professionalità, né in termini di produttività dei servizi.
Articolo di Gad Lerner su La Repubblica del 23/5/2006, Scandalo calcio, di padre in figlio ecco la catena del privilegio […] E ancora. Nel 2003, quando le indagini sui crac di Cirio e Parmalat coinvolsero il presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, nessuno fra gli illustri membri del patto di sindacato di quella banca avanzò rilievi di opportunità per l’insolita compagnia d’affari in cui sedevano riuniti i figli dei protagonisti degli scandali. L’osservazione sarebbe parsa incongrua, esulando dalla materia delle indagini. Gli intrecci familistici da noi sono ridimensionati a mere questioni di gusto, debolezze genitoriali meritevoli d’indulgenza. Eppure mi chiedo quale forma di amore paterno sia questa che trasforma i figli in longa manus della propria influenza nell’establishment. E viceversa, perché a tanti giovani già comunque benestanti riesca così facile accettare l’idea, sgradevole per una donna o un uomo d’onore, di accreditarsi solo grazie ai privilegi del cognome che conta. Posso immaginare le obiezioni. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Le redazioni dei giornali (e più ancora dei telegiornali) non sono forse costellate di firme che si tramandano di padre in figlio? La prole degli avvocati, dei notai, dei medici non eredita forse massicciamente studi professionali bene avviati da generazioni? E la consuetudine di assumere i figli dei dipendenti non è stata contrattata dagli stessi sindacati di categoria, alle poste come alle ferrovie? Niente di nuovo sotto il sole, già i sociologi e gli storici di matrice anglosassone hanno dovuto coniare la formula del familismo amorale per raccontare il Bel Paese.
Relazione del dott. Valerio Belotti, Sociologo, esperto ed autore di testi sulle politiche per l’infanzia, docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova alla Conferenza sulle politiche sociali della provincia di Trieste il 17/1/2003, atti della terza giornata […] In Italia, rispetto ad altri Paesi, si coniugavano due aspetti tra loro contraddittori: ad un’elevata importanza attribuita nella scala dei valori individuali e collettivi alla famiglia si accompagnava uno scarso peso delle politiche di intervento del settore. Ovvero, nel Paese dove maggiore era il peso culturale della famiglia, minore era il suo sostegno da parte della collettività e dello Stato. Come poteva accadere questo paradosso? La risposta era immediata, almeno da parte di alcuni esperti: la società italiana era affetta da una sorta di “familismo amorale”, ovvero da una cultura diffusa che considerava i legami e le strategie familiari cosa privata e disgiunta da una cultura più esterna alla famiglia, da una cultura per così dire di comunità locale. L’Italia viveva, in parte vive ancora, nell’idea che famiglia e bambini trovino sostegno e supporto adeguato nel brodo culturale e quotidiano dei rapporti informali e comunitari ovvero si viveva nell’idea non tanto dell’inutilità, ma della non legittimità dello Stato ad intervenire su problematiche considerate private.
Programma di Rifondazione del 25/11/2005 (Coord. Franca Bimbi) per il Programma dell’unione, Gruppo di Lavoro Scuola, Università, Ricerca – Scheda 1- Un altro mondo è possibile: Sfide, obiettivi e priorità per un’università dei giovani e dei talenti […]2. Le prospettive “Un altro mondo è possibile” le giovani generazioni chiedono ai loro insegnanti competenza, impegno, affidabilità, relazione, trasparenza. Si aspettano dall’università uguaglianza delle opportunità ed un contesto favorevole allo sviluppo del loro capitale culturale. Esigono equità, riconoscimento del merito, occasioni per far fiorire i talenti d’ogni ragazza e ragazzo, indipendentemente dalle disuguaglianze d’origine. “Più università”: rendere effettivo per quanti più possibile l’accesso al sapere, alla qualità del lavoro, alla competenza professionale; facilitare i migliori nel raggiungimento delle più alte mete di formazione scientifica e nel conseguimento precoce delle posizioni di responsabilità. “Più qualità all’università”: investire sul merito, le competenze, la professionalità di molti, penalizzando e lasciando da parte la cooptazione per fedeltà e anzianità, il familismo amorale, lo spoil system.
Tuttavia il termine più corretto che descrive il comportamento tipico italiano è “particolarismo”. Questo concetto è attualmente oggetto di studio di Alberto Marradi, ordinario di metodologia delle Scienze sociali all’Università di Firenze. Dal suo libro “Raccontar storie” edito nel 2005 da Carocci, riporto, a conclusione di questa analisi, un interessante stralcio:
(pp. 88-90) “La dimensione: particolarismo / universalismo”
Una società si forma e si distingue da un clan quando gli individui accettano l’idea di avere dei doveri e delle responsabilità non solo verso se stessi, non solo verso i familiari, non solo verso gli amici o i componenti del proprio clan, gruppo, cricca o simile, ma anche verso qualsiasi membro ignoto e anonimo di quella società. Ampliandosi via via l’orizzonte, si percepiscono doveri e responsabilità anche verso gli stranieri, gli alieni, gli animali non umani, la natura. In sostanza, 1’ampiezza della sfera delle entità che vengono percepite da un soggetto come titolari di diritti nei suoi confronti definiscono la sua posizione sulla dimensione particolarismo-universalismo. Per Ortega y Gasset, «l’essenza del particolarismo si ha quando ogni gruppo vive ermeticamente chiuso in sé, ignorando gli altri. È difficile immaginare che questi agglomerati formino una società» (1921, trad. it. pp 36 e 44-5). Più in astratto, si tratta della capacità di considerare una situazione in base a criteri generali, che tengano conto in modo ponderato degli interessi, immediati e futuri, di tutti gli attori coinvolti (presenti e assenti, individuali e collettivi), anziché privilegiare il punto di vista di specifici attori: il proprio, quello del proprio gruppo o clan, quello dell’attore con cui ci si identifica – per affinità effettive o semplicemente perché la specifica situazione (1) induce a farlo. Parsons (1951, p. 92) chiama universalismo la capacità di trattare specifici individui o situazioni come esemplari di categorie generali anziché in funzione di eventuali relazioni particolari (o assenza di queste) con l’attore. «L’universalista distribuisce le ricompense [...] sulla base di regole generali relative alle prestazioni, indipendentemente da relazioni personali» (ivi, pp. 182-3). Osserva Collins (1975, p. 75): «II particolarista pensa in termini di individui e situazioni particolari, orizzonti di corto respiro, mentre un mondo estraneo e incontrollabile circonda gli ambiti ristretti che gli sono familiari».… Ma – come rileva la Signorelli (1983) – il particolarismo condiziona l’intera società italiana, opera a tutti i livelli della società. «La lealtà alla famiglia, al clan [...] alla clientela, alla fazione, alla mafia [...] se è più evidente nei villaggi del Sud, in realtà permea di sé tutto il sistema culturale e politico» (Alberoni, 1974, p. 470). Tuttavia, come osserva Cartocci (1994, p. .50), per una sorta di «rimozione nevrotica», molti intellettuali italiani hanno ignorato «il peso del particolarismo nella nostra cultura». Malgrado questo, «i sociologi hanno curato poco gli strumenti metodologici e teorici adatti alla rilevazione dei fenomeni particolaristici. Concetti come la parentela, l’amicizia, il padrinaggio e il clientelismo sono stati lasciati prevalentemente agli antropologi, cioè a coloro che per tradizione hanno studiato la società degli altri» (Ève 1993, p. 362). «Le ragioni storiche della divisione del lavoro tra le due discipline sono da ricercarsi in ipotesi essenzialmente evoluzionistiche circa la natura della società moderna; società ” semplici “/”primitive”/”poco sviluppate” erano viste come tipi di formazione sociale le cui strutture si fondavano su sistemi di parentela in contrapposizione alle società “complesse”, “avanzate” o “moderne” in cui la vita sociale era fondata sulla struttura di relazioni. economiche» (Harris, 1990, p. 13). Il fatto che sociologi, antropologi e politologi tendessero a collegare strettamente il particolarismo con il sottosviluppo e l’arretratezza economica fino a confonderli ha provocato le reazioni di alcuni studiosi. Questi, sottolineando il successo economico di alcuni Paesi asiatici la cui cultura è concordemente giudicata particolarista, hanno … la piena conciliabilità dei legami particolaristi con lo sviluppo economico, giungendo a ipotizzare che il particolarismo costituisca la via privilegiata per la modernizzazione e lo sviluppo economico di alcuni paesi, ad esempio dell’America Latina…. Ritengo che queste tesi siano fondate e che a certe condizioni il particolarismo sia perfettamente conciliabile con lo sviluppo, il benessere economico e la modernizzazione. Sono infatti convinto che il particolarismo caratterizzi molte società postindustriali nella stessa misura (7) in cui ha caratterizzato molte delle società storicamente note. Per questo motivo sottolineo l’opportunità – se vogliamo l’urgenza – di studiarlo anche nel cuore delle società industriali avanzate anziché solo nelle loro periferie o nelle società ritenute primitive.
Avrei preferito mille volte di più un’arretratezza derivante da “ricerca della felicità” come la intendevano gli epicurei, basata sull’amicizia, la libertà e il pensiero, in cui “la povertà commisurata al bene secondo natura è ricchezza” mentre “la ricchezza senza misura è una grande povertà”. Purtroppo non è così e con la nostra visione limitata, egoistica e particolarista ci agitiamo, come diceva Lucrezio, … senza alcun frutto e invano sempre, e tra inutili affanni consumiamo la vita, certo perché non conosciamo un limite al possesso e nemmeno, fin dove s’accresca il vero piacere.
Forse la grande sfida che ci attende a partire dal Peak Oil potrebbe essere l’occasione di rivedere la nostra storia. Potremmo trovare una nuova strada in cui far crescere i concetti morali rimasti inascoltati dal tempo degli antichi greci, all’ombra di una dominante ed esponenziale crescita tecnologica e dei crescenti e inutili consumi, alla ricerca di una felicità sempre più irraggiungibile.