di Franco Piperno sul quotidiano della Calabria del 17.06.2011
“ Chi sa fa e chi non sa insegna”
epitaffio sulla tomba del prof. Pataturk.
I) Latorre prima della Gelmini.
Un fatto è certo, bisogna riconoscerlo,Il prof. Giovanni Latorre, rettore da oltre un dodicennio dell’UNICAL, una sua idea dell’Università ce l’ha, e da tempo; fin dall’inizio, dal primo mandato : una sorta d’intuizione anticipatrice in risonanza con il canone berlusconiano che si andava affermando, proprio in quegli anni, nell’ideologia pubblica del nostro paese.
L’idea del Rettore,anche aiutato – o limitato — dai saperi tecnici che coltiva, è quella che l’università vada governata quasi fosse una azienda, dove gli aspetti contabili-renumerativi prevalgono sui fini formativi, e la gerarchia accademica si modella su quella aziendale; una traiettoria, sia detto per inciso, già descritta nel settore sanitario dove, e non da ora, operano delle Aziende, con risultati che non occorre commentare perché ognuno può apprezzare per diretta esperienza.
Va da sé che per mandare ad effetto questo disegno occorreva conoscere e tener conto della microfisica del potere accademico all’UNICAL, in modo da poter offrire una convergenza vantaggiosa alle “confraternite” che, a vario titolo, abitano l’università ed usano comporsi e scomporsi lungo confini mobili in funzione delle finalità, non sempre nobili, perseguite.
L’impresa di Latorre, non si presentava facile, non fosse che per quella rissosità viperina che caratterizza il mondo accademico. Ma ecco che la fortuna sorride e proprio al tempo di quel primo mandato, il Governo bi-partisan apre le porte dell’università e migliaia di docenti vengono assunti – per dare una idea alla fine del terzo, e non ultimo, mandato di Latorre, l’organico dei docenti UNICAL risultava triplicato.
La lunga permanenza del Rettore nel ruolo ha conferito uniformità ai criteri con i quali sono avvenute le assunzioni. Certo, si sono svolti regolari concorsi pubblici nazionali; ma pur nel rispetto delle procedure, si è trattato di un reclutamento, per cooptazione ed autopromozione locale, senza precedenti nella storia dell’università. In breve, si è trattato di concorsi dove, sistematicamente ,i vincitori erano già noti anni prima dello svolgimento delle prove.
E’ emerso , così, un diverso “ideal tipo” di docente che scimmiotta, farsescamente, il “researcher- professor” americano, più simile ad un manager in carriera che ad uno studioso immerso tra “le sudate carte”, più dedito alla ricerca di fondi per la propria confraternita che a trovare qualcosa che valga la pena trasmettere pubblicamente come “conoscenza comune”.
Ecco allora che si sono venute delineando, all’UNICAL, delle linee di individuazione delle confraternite che non sono propriamente sapienziali; e fin qui passi, non si può pretendere il sangue dalle rape; ma per la verità non sono neanche disciplinari o metodologiche o interpretative e neppure tematiche; insomma, non si tratta certo di “scuole di pensiero”, di cui, semmai, si sente, lancinante la mancanza; e neanche, più modestamente, di schieramenti, tendenze politico-culturali, ideologie come suol dirsi oggi. Niente di tutto questo,perché all’UNICAL l’ideologia, dai professori, è stata buttata via, da tempo, come acqua sporca — ed insieme ad essa è finita nel tombino anche il bambino: l’idea stessa di università, l’autonomia della conoscenza.
Le confraternite o cosche universitarie si limitano a coltivare la passione triste che le tiene insieme, dopo averle materialmente costituite : disporre del tempo altrui in forza della natura burocratica della gerarchia accademica, dove l’esercizio del potere non abbisogna dell’autorevolezza che lo legittima, come accadeva ancora al tradizionale dispotismo baronale, quello che il ’68 ha demolito.
E poi, a cascata, ecco la fenomenologia adeguata ad una simile passione : consulenze general-generiche, master per tutti i gusti e tutte le tasche; campagne di marketing dispendiose per attirare studenti con una pubblicità fraudolenta che lascia intendere magnifiche sorti occupazionali nella scuola o nel giornalismo; corsi di aggiornamento per anziane maestre allibite; perizie generose di farmaci o di materiali edili o di composizione dei suoli; brevetti temerari, collaudi tolleranti, pubblicazioni inutili che neppure il coniuge legge; incursioni con paracadute nel mondo della rappresentanza politica; assunzioni, promozioni, assegni borse; questua di finanziamenti per improbabili ricerche, dalla mattonella bruzia ai protocolli per le “ scienze nove”, quelle turistiche ed investigative,per esempio – dove conta non già il programma di ricerca ma la capacità di relazione con il califfo comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo e perfino planetario : circola l’indiscrezione che un professore investigatore, impegnato a spargere legalità, abbia ottenuto fondi direttamente dal Segretario dell’ONU per una ricerca globale sui ricercatori che ricercano ricercati.
Insomma un gran traffico di meschinerie, tante raccomandazioni, piccole sopraffazioni chiamate complessivamente “governance”, un mare di riunioni inconcludenti, pochi soldi e ancor più poche occasioni di reddito per se ed i propri clienti.
Bisogna a questo punto, aggiungere, per evitare equivoci, che la condizione miserabile nella quale trascorre la vita il docente UNICAL non è dovuta alla famosa arretratezza meridionale né alla consueta ‘ndrangheta e neanche ai meriti del Rettore. Piuttosto si colloca ben dentro la dimensione iper-moderna, europea; essa è infatti, a ben vedere, il risultato locale della strategia, avviata già da tempo,degli euro burocrati che da una parte consegna al mercato l’istituzione universitaria, pubblica o privata che sia; e dall’altra elabora piani pluriennali, alla sovietica, dove la ricerca fondamentale è ancillare a quelle sue stesse applicazioni tecniche che sono renumerative per il capitale investito.
La disgregazione intellettuale è di tale portata che, quasi fossero scialuppe di salvataggio, non pochi docenti si arrampicano, nottetempo, su nuove e vecchie Logge, si legano all’Opus Dei,aderiscono ad organizzazioni cattoliche fondamentaliste; e v’è perfino un ricercatore transdisciplinare che è passato dalle investigazioni sulla vile meccanica alla ricerca sui miracoli di Natuzza da Paravati, una veggente locale che attende ancora un Papa che la faccia Santa.
Del resto, non occorre esser né massone né professore per aver contezza del “non- luogo” che è divenuta l’UNICAL, nata come utopia e finita come distopia. Basteranno qui alcune immagini. Il Campus è un immenso parcheggio per decine di migliaia di auto di docenti e discenti, di cilindrata non proprio modesta, che nelle ore di uscita e d’entrata s’intasano nel traffico come se si fosse non ad Arcavacata ma davanti le officine Mirafiori, a Torino, negli anni settanta– tutto questo malgrado che, per dirne solo una, quasi metà degli studenti immatricolati siano esentati dalle tasse in ragione della loro condizione, debitamente certificata, di “bisognosi”.
Ancora, Il Campus, animato durante il giorno dalla anomia della folla, diventa letteralmente desolato al calar del Sole, quando i negozi dei pubblicani chiudono; e, prescindendo dalle infrequenti iniziative delle associazioni degli studenti, assume l’aura di spettrale solitudine, irreale, quasi fosse un quadro di de Chirico. La Biblioteca, poi, sembra gestita dalla”Opera nomadi”: nei cinque giorni e mezzo nei quali è aperta chiude al tramonto, giusto quando cessano le lezioni e gli studenti,almeno quelli tra loro che sono anche studiosi, avrebbero così occasione di frequentarla.
Non mancano poi i centri d’eccellenza così sobriamente mimetizzati nel paesaggio che non ti accorgeresti della loro presenza e ancor meno dei loro successi se non fosse per i cartelli segnaletici.
E che dire dell’incubatore d’imprese, la chiave di volta del disegno rettorale per assicurare che quello spirito imprenditoriale, inoculato in migliaia di ingenui laureati in “scienze manageriali”, abbia il futuro che merita; incubatore la cui “ efficienza ed efficacia”, per dirla con la lingua del Magnifico, è già attestata dalla esperienza dell’ultimo biennio : ogni cento imprese incubate, con i batteri professorali, ne sopravvivono solo due – verrebbe da dire, se non suonasse inconsapevolmente denigratorio, che più che ” incubatore” dovremmo propriamente chiamarlo “sterminatore”.
Vi sono poi gli aspetti più propriamente accademici, quelli di medio-periodo, relativi alla trasmissione pubblica del sapere; ad esempio,la scuola regionale — elementare, media e superiore – registra ormai la presenza massiccia di laureati UNICAL con effetti sulla qualità del servizio che sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.
II) Latorre all’epoca della Gelmini.
Questo era lo stato dell’arte ad Arcavacata nella prima decade del terzo millennio;e va da sé che apparisse urgente recuperare il potere di autogoverno della comunità universitaria, in primis la discussione, l’ analisi collettiva e pubblica da parte di studenti e docenti per valutare i risultati conseguiti dalla esperienza UNICAL, quasi quarantennale, e correggerne le storture; ma l’autorità accademica ha ritenuto una inutile perdita di tempo la convocazione dell’assemblea d’Ateneo e perfino il dibattito nei consigli di facoltà.
Quando ecco che,sul venire a fine del terzo mandato del prof.Latorre, il destino ha voluto che arrivasse la madre di tutte le riforme, quella più autenticamente berlusconiana, la Riforma Gelmini, di epocale inconsistenza.
La Gelmini garantisce a Latorre una sorta di quarto mandato, senza passare attraverso il voto del corpo accademico; inoltre gli vengono conferiti poteri speciali per procedere alla ristrutturazione dell’UNICAL e alla formulazione di un nuovo statuto—che è un po’ come trovare una soluzione che è peggio del problema che pure dovrebbe risolvere.
Così il Rettore, ancora una volta costretto, potremmo dire, ad esercitare il potere non si sottrae al dovere; e, con una certa solerzia , indice una Assemblea d’Ateneo dove espone la sua incondizionata adesione ai criteri della riforma ed il programma di ristrutturazione dell’ateneo.
Per la verità, l’assemblea delude il rettore; ad appoggiarlo solo i presidi, tanto quelli ormai estenuati in avanzata estinzione quanto quei due ruspanti, che da tempo, posseduti dalla voluttà di succedergli, lo parassitano e tramano scambiandosi reciproci sgambetti — insomma, Stanlio e Olio come affettuosamente li ha sopranominati lo stesso rettore.
Docenti e studenti invece, piuttosto che esser grati al prof. Latorre per lo sforzo di pensiero aziendale, criticano la proposta come culturalmente rachitica ed il metodo ritenuto istericamente autoritario; ed un gruppo di studenti finisce con l’insolentire il Magnifico – il che è sempre deprecabile ma qualche volta comprensibile.
A questo punto il rettore realizza che non può contare sul consenso della comunità universitaria e decide di procedere per decreto. Nomina così una Commissione per la redazione del nuovo statuto dove i soli che risultino davvero rappresentati sono il rettore stesso e Stanlio e Olio, I dioscuri come li chiamano rispettosamente coloro che non godono della loro protezione.
La Commissione ha lasciato cadere ogni riflessione sull’alternativa tra dipartimenti disciplinari e tematici, sulla qualità didattica dei corsi, sul rapporto coi luoghi– le città rurali della Calabria e la loro sovranità–, sulla corresponsabilità degli studenti nell’’autogoverno dell’Ateneo; insomma ha evitato di discutere per andare subito al sodo : trovare il “numero magico” che assicuri la gestione aziendale per il rettore residuale e per il successore, fosse Stanlio, onesto “bon vivant” o fosse Olio, intelligenza viscida che fa a meno dell’onesta.
Così, quasi subito, il travaglio dei commissari, grazie all’arte maieutica del rettore-presidente, ha individuati quattro numeri : il cinquanta, il ventuno, il dodici ed il dieci; cinquanta la soglia minima di docenti per istituire un dipartimento, ventuno i membri del Senato Accademico, dodici il numero totale di dipartimenti, dieci i componenti il Consiglio di Amministrazione. Apparentemente, non v’è nessuno rapporto aritmetico tra questi numeri primi e non appartengono neppure alla solita serie di Fibonacci; infatti, qualche commissario ha trovato bizzarra la numerologia e in sede di votazione si è ripetutamente astenuto, un altro si è addirittura opposto — il tutto a prova della procedura democratica alla quale sono stati improntati i lavori della Commissione.
Alla fine, i numeri usciti sono quelli proposti dal rettore con la sola incertezza sul totale dei dipartimenti,che, grazie a prestito di parenti e future complicità concorsuali, potrebbero divenire tredici, in spregio alla scaramanzia.
E tuttavia, a ben vedere, quei numeri attestano una certa coerenza interna del disegno riformatore. Partiamo dal cinquanta; l’aver fissato, per abbattere i costi,una soglia minima arbitraria senza indicare un limite massimo favorisce l’accorpamento dei dipartimenti secondo la facoltà di riferimento – criterio non propriamente aziendale, un costo esterno che il rettore paga per l’alleanza con i presidi. Infatti, Stanlio e Olio sono pronti ad inabissarsi in quanto presidi per riaffiorare, da qui a poco, come direttori di Dipartimenti, riformati sì ma composti da una tale quantità di docenti da porre la necessità di un surplus di rappresentanza in seno al senato accademico.
Inoltre, una soglia minima così alta impedisce la formazione di nuovi dipartimenti per la ricerca di base, quella specifica dell’università, tematica o disciplinare che sia; infatti, proprio a causa del loro essere davvero “ nuovi” hanno scarse possibilità di aggregare “ab initio” una numero così consistente di docenti.
E veniamo a ventuno, tanti sono i componenti del Senato riformato. Questo numero assicura il Rettore di disporre della maggioranza in seno all’organo,che, giova ripeterlo, presiede – maggioranza , i conti son presto fatti, composta dai direttori ex-presidi, dai “responsabili” rappresentanti degli minipartiti studenteschi nonché dai sindacalisti che collaborano.
Quanto al dodici, che potrebbe divenire tredici, abbiamo già detto. Resta da esaminare il dieci, il numero di componenti il Consiglio di Amministrazione riformato. Qui, veramente il Rettore e la sua Commissione hanno dato il meglio. La nuova regola prevede che il Rettore sia eletto insieme ad un “listino” di cinque consiglieri di suo insindacabile gradimento – questo listino, ognuno lo vede, è quella stessa alzata d’ingegno adoperata dai professionisti della politica calabrese per fare eleggere consiglieri regionali da loro stessi nominati.
Qui i saperi disciplinari dei commissari si sono mirabilmente intrecciati, dando luogo ad un modello d’università composta: azienda più partito politico—si prende il meglio da entrambi, dall’azienda la condotta padronale e dai partiti l’organizzazione clientelare.
III). Latorre dopo la Gelmini.
Infine, per chiudere senza concludere, ci sia consentito, come si diceva una volta, di spezzare una lancia a favore del rettore, insomma una considerazione finale. Circola voce, tra gli stessi sodali del magnifico, che il nuovo statuto sia stato redatto su misura, per permettergli, in un futuro prossimo, che resta pur sempre incerto, di presiedere la Fondazione alla quale verrà consegnata la proprietà dell’UNICAL Noi siamo tra coloro che credono si tratti di un ingiusto sospetto; e, da avversari non di Giovanni Latorre ma della sua politica culturale, lo diciamo per onestà intellettuale. Infatti, non è più necessario che il nostro rettore sacrifichi la sua passione di studioso e le gioie del tempo libero, per salvare, per la quinta volta e sotto altra forma, l’Ateneo calabrese.
Dopo la fatica gravosa di esercitare a lungo,troppo a lungo, il potere accademico, ha il diritto di ritirarsi malgrado l’apprensione che questa possibilità suscita tra le schiere degli studiosi e ricercatori che, generosamente, per fini nobili, lo hanno sostenuto con stima e affetto per questi indimenticabili anni. Penso che su questa questione la determinazione del nostro Rettore sia irreversibile; e questo con ragione, perché, con questa ultima trovata del listino, ha impresso una accelerazione alla realizzazione del suo programma,l’Università partito- azienda; sicché, senza tema d’essere giudicati corrivi, possiamo affermare che il prof. Giovanni Latorre prenderà ancora qualche anno per controllare fin nei minimi dettagli, per poi, alla maniera di Cincinnato, ritirarsi, con la tranquilla coscienza di chi ha realizzato l’opera sua. Pienamente, purtroppo.
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