Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli interventi volti a chiarire gli aspetti più regressivi della "riforma" dell'Università testé approvata dal Parlamento. Basterà quindi osservare che, in linea con le discutibili riforme degli ultimi anni, la legge Gelmini ha come obiettivo, neanche troppo celato, l'applicazione all'Università pubblica di forme ambigue di contaminazione pubblico-privato all'insegna del cosiddetto New Public Management.
La tecnica usata negli ultimi anni per privatizzare "a costo zero" i beni comuni non riguarda tanto il trasferimento della proprietà e la trasformazione della sua natura giuridica del soggetto pubblico (tentativo comunque già presente nell'art. 16 della l. 133 del 2008 che consente ai senati accademici di votare la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato) quanto piuttosto il ricorso alla cultura privatistica dei modelli di gestione, il ricorso a modelli di governance non rappresentativi, incentrati sul ruolo del consiglio di amministrazione, evidente espressione dell'incrocio tra interessi particolari e interessi generali. Un modello che rischia di dismettere interi ambiti della nostra tradizione culturale, realizzando di fatto quella che potrebbe essere definita un'autonomia "per abbandono".
La tecnica usata negli ultimi anni per privatizzare "a costo zero" i beni comuni non riguarda tanto il trasferimento della proprietà e la trasformazione della sua natura giuridica del soggetto pubblico (tentativo comunque già presente nell'art. 16 della l. 133 del 2008 che consente ai senati accademici di votare la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato) quanto piuttosto il ricorso alla cultura privatistica dei modelli di gestione, il ricorso a modelli di governance non rappresentativi, incentrati sul ruolo del consiglio di amministrazione, evidente espressione dell'incrocio tra interessi particolari e interessi generali. Un modello che rischia di dismettere interi ambiti della nostra tradizione culturale, realizzando di fatto quella che potrebbe essere definita un'autonomia "per abbandono".
Modello privatistico di gestione
Si può dunque affermare che il ruolo pubblico dell'Università, così come fortemente voluto dalla Costituzione, risulti compresso proprio dal modello di governance delineato dalla Gelmini. Nel consiglio di amministrazione (non composto su base elettiva) dovrebbero sedere almeno tre figure estranee al mondo accademico con una formazione preferibilmente manageriale e quindi orientata a privilegiare la ricerca applicata e l'immediato sfruttamento economico del sapere e delle conoscenze. Sarà poi lo Statuto, da approvare nei successivi sei mesi, a determinare le modalità e le procedure di designazione e scelta degli stessi. Mentre al Senato accademico la legge assegna unicamente il potere di avanzare proposte di carattere scientifico, al consiglio di amministrazione spetterà la responsabilità della spesa, dell'esercizio del potere disciplinare, delle assunzioni e dei costi della gestione. Si tratta quindi, non soltanto di un organo di natura tecnico-finanziaria, ma soprattutto di un organo con poteri decisivi per quanto attiene al reclutamento, l'attivazione e la soppressione dei corsi e delle sedi. A tali poteri gestionali di natura manageriale si aggiungono il ruolo e le funzioni della nuova figura del direttore generale. Nominato dal consiglio di amministrazione, il direttore generale può essere scelto con logiche privatistiche (con un contratto di lavoro a tempo determinato di diritto privato, come peraltro è già per il direttore amministrativo) al di fuori della pubblica amministrazione.
Infine la logica privatistica che pervade tutto il testo emerge nitida e chiara nella norma che regala alle Università private un aumento delle proprie risorse in misura compresa tra il 2 e il 4%, nella possibilità di stipulare contratti con professionisti esterni e nel ricorso al modello contrattualistico per i ricercatori. Da questa logica contrattualistica e individualistica non sfugge il sostegno, che in maniera oscura e poco trasparente, sarebbe dato direttamente agli studenti per favorire il loro accesso agli studi universitari, così come la costituzione del fondo nazionale per il merito, al fine di erogare borse, basato sul c.d. prestito d'onore. Tutte operazioni fondate sulla frammentazione del diritto allo studio e sulla sua subordinazione a logiche mercantili e contrattualistiche che mettono in relazione posizioni oggettivamente diseguali e facilmente ricattabili.
Deleghe in bianco
Tra deleghe al governo, rinvii a decreti ministeriali e provvedimenti di varia natura, moltissimi contenuti della riforma dovranno essere determinati nei prossimi mesi. Sono stati contati 47 provvedimenti attuativi, ai quali vanno aggiunte le riforma statutarie che ogni università dovrà approvare entro fine giugno. Alcune di queste deleghe appaiono prive dei necessari principi e criteri direttivi, ponendosi in sostanziale contrasto con l'art. 76 della nostra Costituzione. Assolutamente in bianco sembra la delega di cui all'art. 5 che incarica il governo di trovare il modo di valorizzare l'efficienza e la qualità degli atenei, riscrivere le regole contabili sul modello aziendale e fissare i livelli essenziali delle prestazioni e del diritto allo studio.
Ma ancora più grave appare il rinvio ad atti di normazione secondaria, in materia coperte da riserva di legge. La libertà di ricerca, di insegnamento, il diritto allo studio, nel pieno rispetto dell'autonomia dell'Università prescritta in Costituzione, devono essere disciplinate con legge e non attraverso strumenti di normazione secondaria che consegnano al Ministro dell'Università, ma cosa ancora più grave, anche e soprattutto al Ministro dell'economia, protagonista in molti provvedimenti attuativi, la determinazione della disciplina. Ad esempio due punti centrali della riforma quali l'abilitazione nazionale ed i parametri di giudizio sui docenti, per distinguere i meritevoli da premiare e gli inattivi da punire, saranno determinati tout court attraverso provvedimenti ministeriali. Entro novanta giorni una serie di decreti concertati fra istruzione, economia e pubblica amministrazione dovranno definire le procedure mentre sono 60 i giorni di tempo per ridisegnare i settori disciplinari. Insomma, una giungla di provvedimenti che si pongono in conflitto con i principi costituzionali della riserva di legge e della completezza e puntualità della delega, violazioni che potranno dare luogo a processi costituzionali e amministrativi.
Modelli non rappresentativi
Il testo della "riforma" prevede che il rettore sia eletto soltanto dagli ordinari di tutte le Università italiane. Si escludono pertanto da tale processo partecipativo ed espressivo del principio di rappresentanza i professori associati ed i ricercatori a tempo indeterminato, nonché tutti gli altri lavoratori che operano all'interno dell'università e l'intero mondo degli studenti. Questa modalità di elezione rischia di favorire una designazione del rettore attraverso cordate di interessi, distaccate dal territorio, finalizzate a "controllare" le maggiori università italiane. Inoltre, alcune tra le componenti fondative dell'Università, quali i professori associati e i ricercatori, saranno escluse dai processi di reclutamento del personale universitario e dalla possibilità di dirigere dipartimenti. Si attua una gerarchizzazione elitaria e antidemocratica assolutamente priva di logica se non quella di potenziare all'interno dell'Università sistemi feudali fondati su rapporti di forza e scambio. Le altre figure saranno trasformate in fantasmi all'interno dell'Università, cioè nel luogo in cui devono contribuire a formare le coscienze e i saperi degli studenti.
Infine, va evocata la violazione dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione. Effettivamente si tratta di una legge-propaganda ricca di proclami ma priva di risorse finanziarie. Basti vedere, tanto per portare un esempio, come il tanto sbandierato fondo per il merito sia alimentato solo da versamenti spontanei di privati (fonte di disparità e diseguaglianze territoriali) e come il sostegno per i più meritevoli (principio costituzionale di cui all'art. 34) si fondi su di un prestito delle banche.
Le strategie
Purtroppo la legge è stata promulgata. Si sarebbe dovuto agire prima, se è vero che già all'inizio del 2009 - come denunciammo nel nostro Manifesto per l'università pubblica (DeriveApprodi, 2008) - era evidente il disegno del governo e i pericoli che ne discendevano. Sarebbe comunque sbagliato pensare che la partita sia chiusa e perduta. Cosa si può fare adesso? Proviamo ad individuare alcune strategie sinergiche tra loro:
1 - impugnare tutti i provvedimenti amministrativi ritenuti lesivi del diritto allo studio e contrari all'autonomia della ricerca scientifica dinanzi alle magistrature amministrative, sollevare in via incidentale le questioni di legittimità costituzionalità sui diversi profili della legge;
2 - elaborare e presentare, al più presto, anche come legge di iniziativa popolare, un progetto fondato realmente sul rilancio della ricerca scientifica e sul ruolo pubblico dell'Università;
3 - elaborare una strategia capace di tenere alto l'interesse da parte di tutta la cittadinanza attiva, con l'obiettivo di abrogare la legge Gelmini, valutando la possibilità di seguire la via referendaria;
4 - presidiare i processi di elaborazione degli statuti dei singoli atenei;
5 - monitorare l'elaborazione dei decreti delegati e dei decreti attuativi.
Si tratta di strategie da porre in atto se si vuole che i cittadini si riapproprino di beni comuni quali la ricerca, l'insegnamento, il diritto allo studio.
Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli, Alfio Mastropaolo
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