giovedì 25 agosto 2011

UNIVERSITÀ, LA CHIAVE È IL DIPARTIMENTO


da www.lavoce.info del 11.08.2011 di Gilberto Muraro


Con il potere di chiamata dei docenti spostato dalle facoltà ai dipartimenti, la riforma dell'università può davvero portare a un miglioramento della produttività scientifica e didattica degli atenei. Ecco due suggerimenti per trarre il meglio dalla riforma: creare dipartimenti effettivamente ampi e omogenei. E conservare la complementarietà degli apporti didattici, privilegiando la creazione di strutture di coordinamento interdipartimentali. L'auspicio è che anche il loro nome - facoltà o scuole - sia lo stesso.

Le università stanno modificando la loro struttura organizzativa e decisionale in ossequio alla legge Gelmini, legge 240/2010: accorpamento dei dipartimenti su base disciplinare e affidamento agli stessi dipartimenti del potere di chiamata dei docenti nonché delle responsabilità didattiche, salvo che non si preferisca costruire strutture di coordinamento interdipartimentali, comunque denominate, che non potranno essere più di dodici nell’ateneo.
VALUTAZIONE E PREMI
È una riforma che promette un aumento di produttività scientifica e didattica. In particolare è positivo che il potere di chiamata passi ai dipartimenti, soprattutto se si svilupperà il sistema di valutazione di ateneo e nazionale, con connessa erogazione di premi e penalità. Tutto è discutibile, ma la valutazione dei dipartimenti può essere molto più attendibile di quello delle facoltà, dove è difficile accertare la qualità del prodotto, ossia del laureato, e si rischia, premiando le facoltà con minori tassi di abbandono e minori ritardi di laurea, di stimolare la permissività e punire il rigore. Nel nuovo contesto c’è un interesse collettivo a ricevere più risorse grazie a una buona valutazione: quest’anno, la quota del Ffo erogata su base premiale, introdotta da Tommaso Padoa-Schioppa nella Finanziaria 2008 e cresciuta fino al 10 per cento dell’anno scorso, si annuncia del 13,5 per cento. Dovrebbero perciò diminuire i voti di scambio che in certe facoltà hanno introdotto troppi parenti e affini e troppi allievi locali.
Al contempo, attenzione a non passare da un estremo all’altro. Il pericolo di autoreferenzialità dei dipartimenti è elevato e potrebbe portare a percorsi didattici su misura, dove si sacrifica la complementarietà dei saperi e si ingessa la ripartizione degli apporti didattici rispetto all’evoluzione delle esigenze formative della società. Due suggerimenti, allora, per cercare di evitare il peggio e trarre il meglio dalla riforma.
COME DEVE ESSERE IL DIPARTIMENTO
Primo: attenzione alle manovre gattopardesche, alcune già note, che si limitano a chiamare dipartimento la vecchia facoltà. Che i dipartimenti, dunque, siano davvero ampi e omogenei, tranne rari casi di dipartimenti tematici dove la complementarietà prevale sull’affinità. Il fenomeno dei gruppi di studiosi dello stesso settore ferocemente nemici o che comunque non stanno bene insieme è limitato, ma non eccezionale, qualche volta ha pure stimolato una proficua competizione, in ogni caso non si trova solo in Italia. Ma solo qui, per quanto a mia conoscenza, si fanno le strutture a misura di chi c’è oggi. Superfluo ricordare che le persone passano mentre le strutture rimangono e che le duplicazioni costano alla collettività. Non è invece superfluo ricordare che gli atteggiamenti cambiano se si crea il contesto per un loro positivo cambiamento: da un lato, nel dipartimento ampio ognuno si interfaccia con chi vuole e si colloca dove vuole, sicché scompare la conflittuale convivenza forzata dei piccoli gruppi in spazi ristretti; dall’altro lato, la valutazione sistematica di ateneo e nazionale riduce la necessità di affermarsi attraverso continui scontri interni. Non consentire quindi che si formino piccoli dipartimenti affini o che gruppi di studiosi afferiscano a dipartimenti diversi da quello di logica pertinenza, oltretutto inquinando l’omogeneità dei dipartimenti che li accolgono.
CREARE STRUTTURE INTERDIPARTIMENTALI
Secondo suggerimento: privilegiare la creazione di strutture interdipartimentali per la didattica, magari conferendo voto ponderato ai diversi dipartimenti quando il loro ruolo nel percorso formativo sia differenziato. Il sistema gestionale degli atenei sul fronte della formazione dovrebbe quindi configurare un sistema a matrice, con i dipartimenti che formano e conferiscono gli input alle “strutture” che li assemblano per costruire e vendere l’output: schema pienamente applicabile senza eccessivi sforzi, soprattutto se si tiene alto il potere di autorizzazione, controllo e intervento degli organi centrali di ateneo.
Last and least
, ma non irrilevante, sarebbe bello se queste “strutture” e i loro responsabili si  chiamassero allo stesso modo in tutta Italia. Purtroppo pare che la Crui non sia riuscita a svolgere alcun coordinamento in materia, sicché avremo scuole e facoltà, rette da presidi, presidenti, direttori e coordinatori. Non sarà la fine del mondo, ma non è un buon inizio di fronte all’opinione pubblica.

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